I soliti sospetti. Il (potente) cinema politico di Bong Joon-ho sedici anni prima di “Parasite”

In sala dal 13 febbraio (per Academy Two), “Memorie di un assassino”, secondo film del plurioscarizzato, Bong Joon-ho. Sedici anni prima di “Parasite” il regista sudcoreano sforna un gioiello noir in cui, a partire da un celebre fatto di cronaca, inscena una potente metafora politica. Poliziotti che brancolano nel buio alla ricerca del responsabile di una serie di efferati delitti e che infieriscono sui poveri diavoli in odore di “diversità”. In controluce e senza proclami, la ragione del film è chiarissima: il mostro è senza nome perché figlio e simbolo di un regime …

È tornato in sala Parasite, il pluri-Oscar sudcoreano dei miracoli, ma per chi volesse verificare di persona che i miracoli non nascono dal niente è in sala dal 13 febbraio un gioiello noir di Bong Joon-ho del 2003, Memorie di un assassino.

Quentin Tarantino lo ha definito “capolavoro unico”, e non si può che dargli ragione. Già col suo secondo lungometraggio (premiato, in Italia, al Torino Film Festival e campione di incassi in patria) questo ragazzone zazzeruto classe 1969 era avanti anni luce.

La vera vicenda narrata dal film ha fatto epoca, nella Corea del Sud martoriata da un feroce regime militare. Tra il 1986 e il 1991 un serial killer violentò e massacrò dieci donne nei dintorni di Gyeonggi, piccolo centro agricolo vicino a Seul. La paura si alimentò di dettagli macabri, ma l’assassino non fu mai scoperto, fino a un’identificazione “probabile” di pochi mesi or sono.

Bong Joon-ho racconta un’indagine poliziesca tra fango, miseria e risaie, ma ne fa una potente metafora politica. La sua materia viva sono gli agenti del distretto locale (superlativo il suo attore-feticcio Song Kang-ho) che brancolano nel buio infierendo sui poveri diavoli in odore di “diversità”.

Sono poveri diavoli anche loro, e comici, spesso. Ma di volta in volta estorcono confessioni a forza di pugni e calci che un Detective “pulitino” arrivato dalla Capitale puntualmente si incarica di smentire. Salvo essere risucchiato a sua volta in un gorgo persecutorio senza uscita.

La suspense incolla alla sedia e spazza via gli stilemi di genere consacrati da tanto cinema americano. Ma soprattutto restituisce un clima politico fatto di abusi, ignoranza e sopraffazione, in cui il coprifuoco favorisce l’opera del macellaio e le forze dell’ordine sono più occupate a bastonare gli studenti in piazza che a mobilitarsi per sventare un delitto.

In controluce e senza proclami, la ragione del film è chiarissima: il mostro è senza nome perché figlio e simbolo di un regime. Bong Joon-ho usa la cronaca gialla come allegoria. Come Parasite, sedici anni prima di Parasite: non c’è bisogno di lezioncine e pistolotti per fare grande cinema politico. Le sbalorditive standing ovation che i grandi di Hollywood hanno tributato al cineasta che ha rivoluzionato la storia degli Oscar dicono proprio questo.

fonte Huffington Post