La Berlinale chiude con l’Orso d’Oro all’Africa di Mati Diop. Cercasi nuovo divano per il nostro inviato

 

Berlino incorona Dahomey di Mati Diop, un documentario per il secondo anno di seguito, ma ancora una volta uno di quelli ben fatti, sulla restituzione di alcune opere d’arte dalla Francia al Benin. Non ha accarezzato lo stomaco dei due governi, Diop, anzi è stata molto brava a mostrarne le contraddizioni.

Insomma un Orso che alla fine può farci accoccolare tranquilli per l’ultima notte sul nostro divano. Basterà non pensare a quelli d’argento, distribuiti a registi bravi in (quasi) tutti i loro lavori tranne quello presentato a Berlino. È il caso di Hong San-soo, Gran Premio per A Traveler’s Needs, e Bruno Dumont, Premio della giuria per The Empire.

Invece dormirà in hotel Matthias Glasner, ma forse avrà sonni meno tranquilli. Almeno a giudicare dalla faccia messa su per il suo Orso alla sceneggiatura per Dying che probabilmente aveva immaginato di un altro colore quando era stato richiamato a Berlino.

Tra i premi ai singoli la musica non cambia: ineccepibile l’Orso alla miglior non protagonista (Emily Watson nel letterario Small Things Like These), generoso quello al miglior protagonista e al miglior contributo artistico (rispettivamente a Sebastian Stan per A Different Man e Martin Gschlacht per Des Teufels Bad).

Grande incertezza su quello alla miglior regia, assegnato a Nelson Carlos de los Santos Arias per Pepe, strana storia dell’ippopotamo di Pablo Escobar. Narrata, ma qui sta il bello, dallo stesso ippopotamo.

A scuotere la platea sono stati i continui rimandi alla guerra a Gaza, moltissimi cessate il fuoco sui vestiti e nei discorsi, compreso quello della giurata italiana, Jasmine Trinca. Il punto più forte è stato però la vittoria come miglior documentario di No Other Land, realizzato da un collettivo israelopalestinese, che ha mandato anche una stoccata diretta alla Germania: «basta armi a Israele».

Noi, come da titolo, la Berlinale l’abbiamo seguita dal divano. Ora, chi non ha più il coraggio di rischiare taglia corto: hotel a due passi dalla sala e via. Ma è gente senz’anima, quelli che della spigola preferiscono l’ala, per citare qualcuno.

Dormire sul divano è qualcosa di più del coach surfing d’altri tempi. Significa abbracciare la precarietà in cui affonda un po’ tutto, tenersi sulle spine. E se non ci lanciamo in sfilze d’aggettivi eroici è solo perché quel campo semantico, quello dell’onore e delle mostrine per intenderci, preferiamo lasciarlo a chi ha la faccia tosta di fregiarsene.

A Berlino la nostra arte del navigare sui sofà si è fatta forte di un’esecuzione tripla carpiata. Esatto, siòre e siòri, ben tre divani diversi, anche a debita distanza l’uno dall’altro. Questa paginetta difatti serve anche a rassicurare amici e familiari della sopravvivenza di chi la scrive.

Il tutto per la Berlinale, uno di quei festival in cui la nicchia si fa maggioranza e concorso. E che infatti ci ha ripagato con quella che fino al penultimo giorno avremmo chiamato una selezione un po’ deludente. Invece, proprio al fotofinish, ecco due perle che nessuno si aspettava.

Da un lato il nepaliano Shambhala, che tradotto significa all’incirca posto di tranquillità e pace, a cui ci siamo subito ispirati per ribattezzare l’ultimo dei nostri divani. Il secondo invece è più vicino, danese, Vogter di Gustav Möller, ma la sua traduzione (“figli”) non dava appigli per nuovi nomignoli.

Scorrendo tra gli Orsi d’oro e d’argento non li troverete. La giuria, come al solito, ci è avversa, ma dovrete credere sulla fiducia. Manca alla lista anche La cocina, adattato da Arnold Wesker, un altro dei pochi film che meritavano un premio.

L’ultima notte, quella in cui non ci sono più sveglie da settare e film da vedere, dopo dieci giorni di tour de force, in qualche modo è la migliore. I festival sfiniscono, cari lettori, pensate poi vissuti su un divano. Ma sono anche tra le cose più esaltanti che ci siano e già si cercano divani per il prossimo.