La “Passione” di Anderson per la musica indiana
Tra documentario e sperimentazione, tra musica e immagini, arriva alla Festa di Roma “Junun”, ultimo lavoro del regista di “The Master” dedicato al suo compagno di strada, Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead…
Partiti i titoli di coda di Junun, la prima cosa che ci si domanda è: “cosa abbiamo visto?” Sì, perché Junun è un documentario su Jonny Greenwood, chitarrista e polistrumentista dei Radiohead, che collabora alla registrazione di un album insieme al compositore israeliano Shye Ben Tzur e al suo gruppo di musicisti indiani. Junun è la semplice ripresa di un concerto. O forse il making of del lavoro di registrazione del disco, buono per la sezione “contenuti speciali”. O, ancora, la sperimentazione e il divertissement di Paul Thomas Anderson che si mette al seguito di amici di vecchia e nuova data.
Junun è un po’ tutto questo insieme, effettivamente. Il regista americano, straordinario armonizzatore di cinema d’autore e blockbuster – da Magnolia a Il petroliere, da The Master all’ultimo Vizio di forma tratto dal romanzo di Pynchon – si presta qui a un gioco di sinergie tra suoni ed immagini, musica e preghiere, intimità ed espressione.
In una splendida sala del Forte Mehrangarh, nel distretto di Jodhpur nel nord-ovest dell’India, un gruppo di indiani è raccolto in circolo a pregare. Finito il rituale iniziano a preparare gli strumenti: onde martenot, dholak, trombe, corni, armonium, sarangi, i musicisti indiani riversano la loro spiritualità in una musica che segue la cantilena delle preghiere, ma accresce il ritmo e la passione ( non a caso in hindi “junun” significa proprio “passione”).
Al centro del gruppo l’israeliano Shye Ben Tzur a guidarli e accompagnarli, più defilato Jonny Greenwood, come sempre capelli lunghi e testa bassa, concentrato sulla chitarra elettrica o su un Mac portatile. La camera gira in tondo, riprende tutti i partecipanti, si sofferma su qualche dettaglio della bellissima sala, “zumma“ più sui volti che sugli strumenti degli indiani, ogni tanto fa un’escursione fuori dalle grandi finestre, riprende il paesaggio spettacolare, si lascia scaldare dalla luce del sole e torna dentro.
I musicisti ora riposano, Greenwood è sempre indaffarato con le sue cose, la camera va a farsi un giro dai tecnici del suono e dagli altri operatori. In pochi parlano, due tre battute e via, altrettanto pochi son quelli che parlano tra loro, i dialoghi sono ridotti al minimo. Il linguaggio della parola è sospeso, lo spazio e il tempo sono riservati a quello della musica e delle immagini.
Si torna a suonare, adesso si aggiungono anche delle voci femminili, coordinate dal solito Shye Ben Tzur, leader di questa “band” così insolita. Greenwood, che potremmo immaginare essere il protagonista, è sempre lì, per conto suo, immerso nei suoi strumenti e nella magia della musica. Un’alchimia, il continuo seguirsi di una melodia intima ma seducente, che riempie l’atmosfera, anche quella della sala dell’Auditorium dove ci troviamo. Forse questo potrebbe essere il lavoro di Anderson, che riduce quasi al grado zero il suo intervento, si muove sempre con discrezione, mentre la cinepresa dialoga silenziosamente con i suoi oggetti.
Verso la fine lo intravediamo ridere mentre si diverte ad alzare in aria un drone. La fine delle registrazioni coincide con quella del film, non ci sono saluti, nessuna comunicazione, Anderson scatta una foto di gruppo e i titoli di coda possono partire, al via le domande.
20 Novembre 2016
Amori quadrangolari per la scrittrice Sadie
In anteprima mondiale al Torino Filmfest, "Sadie", di Craig Goodwill, tutto…
5 Novembre 2015
La ragazza di Nick Hornby per Molaioli
Sono in corso a Roma le riprese del nuovo film del regista de "Il gioiellino",…
31 Marzo 2016
Un libro, per liberare la mente dai pregiudizi
"Un bacio", diventato anche un film, è "un racconto che tratta di bullismo e…