La “Lady Macbeth” che non piaceva a Stalin

In sala dal 15 giugno (per Teodora) “Lady Macbeth del Distretto di Mtsensk” di William Oldroyd che adatta il racconto di Nikolaj Leskov, l’opera che costò a Šostakovič la condanna del regime. La storia “ritorna” nell’Inghilterra dell’Ottocento: Katherine progetta l’omicidio del suocero e del marito, ma la sostanza non è la liberazione di una donna, bensì l’esercizio del potere di classe, dei ricchi sui poveri, ieri come oggi. Da non perdere…


William Oldroyd, talento del teatro inglese, esordisce nella regia cnematografica con l’adattamento di Lady Macbeth del Distretto di Mtsensk, il racconto lungo di Nikolaj Leskov pubblicato per la prima volta in Russia nel 1865. Una trasposizione che ha precedenti: il più noto è l’opera composta da Dmitrij Šostakovič nel 1934, che attirò sul musicista il giudizio negativo di Stalin e la condanna del regime. Malgrado il successo di pubblico e le numerose repliche nell’Unione sovietica, infatti, su Lady Macbeth intervenne la stroncatura della Pravda («Un’opera pervertita e apolitica») che aprì un periodo drammatico per l’autore.

Al cinema fu portato da Andrzej Wajda con Lady Macbeth siberiana del 1962: il cineasta polacco recentemente scomparso lo gira nel rispetto filologico della fonte, ambientandolo nella Russia ottocentesca e tornando direttamente a Leskov piuttosto che alla composizione di Šostakovič.

Attenzione: il testo dello scrittore russo (edito in Italia da Controluce Nardò) non è ispirato alla tragedia di Shakespeare, ma la citazione all’opera del Bardo è solo nominale e arriva a posteriori, quando la vicenda narrata viene storicizzata e diviene racconto popolare. Scrive lo stesso Leskov: «Qualche volta dalle nostre parti capitano personaggi tali che non possiamo dimenticare senza terrore, anche se è passato molto tempo da quando li abbiamo incontrati. Al numero di tali personaggi appartiene la mercantessa Caterina L’vovna Izmajlova, che non cessò mai di recitare un dramma terribile, dopo il quale i signori della nostra nobiltà incominciarono a chiamarla con il dolce nome di Lady Macbeth del distretto di Mtsensk». Dunque Lady Macbeth è il soprannome assegnato a Caterina dopo gli eventi, in un processo di mitizzazione della cronaca che già due secoli fa appare simile al nostro contemporaneo.

Oldroyd mantiene l’anno originario del racconto (il 1865) ma lo reinstalla nella campagna inglese. Caterina diventa Katherine. La ragazza (un’intensa Florence Pugh) è ingabbiata nel matrimonio di interesse con un uomo adulto, sottomessa da lui e dal suocero, e vive le regole in passività, aderisce all’obbligo dell’etichetta. La superficie sociale si spacca quando, assente il marito, essa intreccia un rapporto con l’operaio Sebastian (Cosmo Jarvis) che lavora proprio al loro servizio. Travolta da un sentimento inedito, la donna progetta l’omicidio del suocero e del marito e ottiene la complicità dell’amante…

È un film sull’esercizio del potere, Lady Macbeth di Oldroyd. L’autore costruisce la sua versione insinuando una falsa pista: dall’inizio, nel tratteggio della figura di Katherine, il racconto sembra imperniato sull’oppressione della donna e il suo percorso di liberazione, che passa sì attraverso l’omicidio, ma lo fa come tappa imprescindibile per ottenere la catarsi.

È la vendetta di una donna offesa. Niente affatto: nella progressione degli eventi il quadro cambia colore e, gradualmente, lascia intravedere le sue tinte reali. Se l’eliminazione del suocero e del marito possono leggersi come atti eversivi che rientrano nella lotta all’oppressore, è però nell’omicidio del bambino che Katherine perde la maschera: come anticipato dalla cruenta aggressione al coniuge, la donna ha ormai completato il percorso verso una lucida follia.

Lucidità che si sostanzia nel compiersi del piano: tradita dall’amante, per salvarsi non le resta che riaffermare il dato scientifico dei rapporti di classe. La serva nera e l’operaio povero sono i colpevoli ideali, facile credere (o voler credere) in loro come coppia assassina. E allora va rivista anche la dinamica di dominazione inscenata: Katherine, che dal marito veniva dominata attraverso lo sguardo («Togliti il vestito», le dice l’uomo per guardarla), a sua volta domina l’operaio Sebastian, lo manipola e strumentalizza, in una sovranità perfino sessuale qui assegnata alla donna.

William Oldroyd cesella questo ritratto femminile iscrivendolo in gelide geometrie, inquadrando dettagli e spesso relegando il cuore dell’azione fuori campo, come nella mirabile sequenza della morte del suocero che ci è sottratta alla vista e lasciata solo all’ascolto. È anche una storia evidente, nutrita dalla metafora palese, per esempio il cane legato che conosce una controversa liberazione esattamente come la protagonista. È un intreccio meccanico che, innescato il fatto, avanza automatico nella rivelazione della vera natura del personaggio e la segnala sfiorando lo splatter.

Però il suo slittamento, il film sulla donna che diventa film sul potere, è a suo modo davvero dislocante. Perché i rapporti di forza cambiano forma e genere (da maschile a femminile) ma restano intatti: assorbendo l’uso degli uomini Katherine sfrutta la propria posizione per salvarsi.

Già apprezzato a Toronto, Premio Fipresci al Festival di San Sebastián, Premio della critica allo Zurich Film Festival, Lady Macbeth non è certo un’opera apolitica, come scriveva la Pravda della versione di Šostakovič, al contrario: il suo senso politico è proprio nella riproposizione violenta della logica di classe, a cui non si sfugge, nella dittatura dei nobili che reprimono i più umili. Malgrado l’ispirazione al racconto ottocentesco, dunque, suona chiara e ineludibile la traccia contemporanea che contiene: ieri come oggi sono sempre i ricchi a dominare, i poveri a essere dominati.