Legge copyright: quelli contrari. Sarà censura con l’algoritmo ammazza citazioni
La nuova normativa europea sul copyright. E quell’articolo 13, soprattutto, che prevede né più né meno, che la censura. Un “upload filters” – costosissimo – di cui dovranno dotarsi per legge le piattaforme Internet, impedirà preventivamente ogni citazione da libro, film, musica, considerandole violazioni del copyright. Proteste di piazza in tutta Europa, attesa la grande manifestazione a Berlino per fine marzo, quando la normativa sarà approvata …
Cercare le briciole nella guerra fra giganti. Accontentarsi delle briciole fra le macerie. Ma neanche: accontentarsi della promessa che, forse, dopodomani qualcosa potrebbe restare fra le mani. E non è detto. Anzi, è probabile che non sarà così. Di più: pretendere quelle briciole sgomitando, infischiandosene degli altri. Di tutti gli altri. Dei diritti degli altri.
Di che si parla? Della nuova normativa europea sul copyright. Accolta con favore dagli autori cinematografici (vedi la lettera dell’Anac). Dal sindacato dei giornalisti. E dal silenzio, invece, di quel “campo” politico che pure – secoli fa – nacque a difesa dei diritti. Sociali ed individuali.
La metafora iniziale, allora, va spiegata. Il tema, s’è detto, è l’orrenda normativa europea sul “diritto d’autore”. Meglio: si parla soprattutto dell’articolo 13 di quel pacchetto di norme. Quello che prevede, né più né meno, che la censura.
È una storia abbastanza nota (non certo grazie ai quotidiani italiani) che si può sintetizzare in poche righe: dopo un’estenuante trattativa – condotta trasversalmente da tutti i gruppi a Bruxelles e da tutti i governi nazionali – all’inizio di quest’anno, la presidenza romena di turno della Ue aveva deciso di sospendere il negoziato sul testo che avrebbe dovuto ridisegnare l’impianto legislativo del copyright.
Tra le tante cose, troppo impresentabile il capitolo 13: prevedeva che tutte le piattaforme Internet si dotassero di “upload filters”. Si tratta di software costosissimi, dove un algoritmo “controlla” – preventivamente, prima che sia reso pubblico – che il materiale postato dagli utenti non violi il copyright. Una foto, un disegno, una canzone o anche due righe di un libro. Il software bloccherebbe tutto, inviando una comunicazione alla piattaforma e una all’utente. Giustizia privata.
Censura, appunto. Censura preventiva. Come neanche Orban. Con l’evidente rischio che qualsiasi “citazione” musicale, anche pochi secondi (come prevede invece il “fair use” statunitense) e addirittura una critica scritta citando la fonte, potrebbe essere bloccata. Da un algoritmo, non da persone. Cosa comunque che non la fa né più, né meno grave la censura.
Il pericolo sembrava scampato quando il 18 gennaio, i governi – con una risicata maggioranza che si opponeva all’articolo 13 – hanno preso atto che non si poteva andare avanti e hanno deciso di rinviare tutto a dopo il voto delle europee.
Ma non avevano fatto i conti con la Francia e la Germania. In una trattativa riservata, i due governi – due settimane fa – hanno trovato una nuova formula del testo. E forti del loro peso, la misura – assieme a tutto il feroce pacchetto a difesa del copyright – è tornata al centro di un negoziato nel Consiglio di venerdì 8 febbraio e a fine marzo andrà in “plenaria” per essere approvata.
Con un’aggravante. Che il nuovo testo è addirittura peggiorativo rispetto a quello accantonato. Ci sarà l’obbligo degli “upload filters” per tutte le piattaforme. Tutte. Il governo Macron – che in questa storia aveva vestito i finti panni del difensore delle start up, molte delle quali ovviamente saranno costrette a chiudere perché impossibilitate a spendere centinaia di migliaia di euro per i programmi censura – ha solo chiesto e ottenuto da Berlino tre deroghe: i filtri non saranno obbligatori per le piattaforme nate entro tre anni, per quelle che hanno un fatturato inferiore ai 10 milioni di euro e per quelle che hanno meno di 5 milioni di visitatori al mese.
Lo sforamento di una sola di queste clausole fa chiudere tutto. Resterà qualche blog, insomma. Forse.
Di più: le piccole piattaforme “esentate” saranno però costrette a stipulare accordi coi titolari del copyright. Su richiesta di questi ultimi. Così – ancora e per capire meglio – la piattaforma che ospita questo sito potrebbe dover firmare un accordo con il Maxxi di Roma, pure se i suoi utenti non hanno mai postato né un link, né una foto del museo.
Si decide tutto a fine marzo, s’è detto. Ed ecco qui il comunicato dell’Anac. Che s’impelaga in un contorto ragionamento sul diritto degli autori ad essere retribuiti. Diritto sacrosanto, ovviamente. Diritto che però rivendicano con la censura, con la richiesta – a Grillo e a Salvini – di approvare in Europa le normative così come sono (si rivolgono ai leader leghisti e grillini perché l’Italia ha espresso dubbi sul testo).
Vorrebbero le briciole, si diceva, a scapito delle libertà degli altri. Ma poi: quali briciole? Perché – come sanno tutti – il copyright nell’87 per cento dei casi non appartiene più all’autore dell’opera. Lo acquisisce, lo acquista, la major che produce il film, la major che lo distribuisce.
Ma c’è di più. Forse di più rilevante. Quel comunicato racconta meglio di qualsiasi altra cosa, la resa degli autori cinematografici. Che sono stati un pezzo rilevantissimo della storia culturale di questo paese. Raccontano che anziché porre il problema di conquistare – sì, termine desueto – nuovi contratti più favorevoli con i produttori, anziché porre il problema – drammatico – di conquistare, di riconquistare nuovi, ingenti finanziamenti pubblici al cinema d’ autore si accontentano di ripiegare. E di far pagare la loro resa alla libertà di tutti. E far pagare la loro resa a chi – e sono tantissimi – magari vorrebbe solo citare quelle opere, farle conoscere. Farla pagare a chi anche in rete ancora prova a fare cultura.
Qualcuno dirà: vero, ma i giganti del Web si arricchiscono. Nessun dubbio su questo. Ma anche qui, c’è un’altra strada fra il parteggiare fra i vecchi oligarchi (gli editori, le vecchie major cinematografiche) e i nuovi giganti telematici. Si potrebbe per esempio cominciare smettendola di parlare per approssimazione. E raccontare, per esempio, che già YouTube dispone di quel costosissimo “up filter” previsto dall’articolo 13.
E stiamo parlando – ripetiamolo – di un software che costa centinaia e centinaia di migliaia di euro. E che quindi quella norma creerebbe un’oligarchia ancora più ristretta. Ma soprattutto si potrebbe cominciare col dire che quei nuovi giganti – che hanno bilanci paragonabili a quelli di sette stati africani – certo guadagnano con la pubblicità che accompagna i filmati che mettono a disposizione.
Anche quelli che violano le leggi sul copyright (e tutti i paesi europei hanno leggi apposite che lo sanzionano; leggi incredibilmente che funzionano meno se i criteri sono più rigidi, vedi i casi di Spagna e Francia). Guadagnano ma poca cosa rispetto ai loro profitti. I big guadagnano vendendo i nostri dati, profilando le nostre attività. Trasformando in dollari ed euro le nostre vite. Cominciando a dire, allora, che la nostra privacy non va toccata, cominciando a dire che i loro profitti vanno tassati. In Europa. E le immense risorse recuperate vanno destinate alla cultura. Alla cinematografia.
Difficile? Difficilissimo. Ma l’alternativa è la resa.
Comunque, gli autori possono star tranquilli. Non sono soli. In Italia anche il sindacato dei giornalisti da mesi, da anni chiede l’approvazione di quelle norme liberticide. E visto che ogni categoria ha il suo “capitolato” i giornalisti chiedono l’approvazione soprattutto dell’articolo 11. Quello che tutti chiamano “link tax”. Che se approvato a Strasburgo e poi reso operativo dai governi nazionali, renderà impossibile scrivere una pagina Web con un link, renderà impossibile citare anche solo due righe di un testo, se prima non si è chiesto il permesso all’editore, titolare del copyright. Prima il permesso, poi, fra un po’ magari una tassa. Appunto, la link tax. E così sarà impossibile anche solo criticare un articolo, un libro. O bisognerà farlo sottintendendo la fonte. Censura, ancora censura, dunque.
Anche in questo caso, i giornalisti hanno preferito schierarsi con gli editori. Come se la crisi di autorevolezza – e quindi il crollo delle vendite – dei giornali dipendesse dal copyright. Come se il divieto di “citazione” contrastasse in qualche modo la deregulation selvaggia del settore. Come se più reddito per gli editori significasse una maggiore qualità dell’informazione. Così, pure loro – i giornalisti – hanno scelto la resa: anziché urlare contro il taglio ai finanziamenti per l’editoria – che di fatto uccide la democrazia – preferiscono tifare Cairo, De Benedetti o Mondadori. E i loro corrispondenti europei.
Il tutto – a renderlo ancora più fastidioso, o almeno a renderlo più fastidioso per chi scrive – con richiami continui alla libertà, al lavoro. Ai diritti. Con un linguaggio che una volta si sarebbe definito “di sinistra”. Approfittando del silenzio della sinistra italiana su questi temi.
Silenzio che però – anche questo vale la pena sottolineare – è solo italiano. A Bruxelles è stata consegnata una mozione contro la legge liberticida firmata da cinque milioni di persone. Con tanto di nomi, cognomi, indirizzi e numeri di telefono. La più grande petizione da quando esiste la Ue. E poi: in queste settimane, la Germania è attraversata da enormi cortei, organizzati dalle associazioni che si battono per i diritti digitali. Diecimila a Colonia, altre decine di migliaia se ne aspettano a fine marzo a Berlino. In concomitanza col congresso della Spd, dove i delegati saranno costretti a dire un sì o un no alla normativa europea. Come hanno preteso i giovani dello Jusos, l’organizzazione giovanile dei socialdemocratici, che comunque già hanno rifiutato quel mostro legislativo.
In attesa di quel voto, la sinistra – la dove c’è – si è schierata. L’ultimo tweet della Linke: “Bisogna essere chiari: no alla censura, no alla sorveglianza. In piazza”. Loro ci sono.
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