L’ossessione di Roberta Torre per il musical. E Riccardo finisce all’inferno

Presentato in anteprima al Torino Filmfest, “Riccardo va all’inferno” il nuovo musical di Roberta Torre, rivisitazione in chiave dark-pop della tragedia scespiriana, con Massimo Ranieri e Sonia Bergamasco alla testa di una temibile famiglia di spacciatori. Sovraccarico e psichedelico, ridondante e sofisticato dice delle magnifiche ossessioni della regista, ma rischia la “monotonia” per eccesso.

Fedele al testo lo è fin dall’incipit, con quell’ “inverno del nostro scontento” che echeggia rock dalla voce di Massimo Ranieri, novello e sulfureo Riccardo III in abiti dark, pronto a fare una carneficina – che infatti farà – pur di strappare il trono al fratello Edoardo (la Jena) e seminare il terrore.

Il ritorno al musical di Roberta Torre sulle tracce del Bardo è un fiume in piena, una colata di lava ancora incandescente in un caleidoscopio di citazioni, dettagli, visioni, piccole e grandi ossessioni che quasi ti stordiscono.

Ossessioni doc quelle dell’autrice milanese che si è fatta siciliana (per una decina d’anni) per narrare affascinata – lei prima di tutti – quel mondo di angelesse e mafiosi che hanno reso il suo cinema unico, dissacrante e provocatorio, capace di rinnovarsi (Angela, in questo senso, resta il suo capolavoro) nonostante tutto, anche attraverso la fotografia (Ma-donne), il teatro (recentemente anche un Riccardo III) e l’opera (Aida).

Un cinema fuorinorma (rubiamo la definizione ad Aprà) quello di Roberta Torre, capace di osare, di rischiare, di sperimentare e che proprio dal musical è partito, in tempi non sospetti, reinventandosi il genere con quel Tano da morire (era il ’97) in cui la mafia messa in macchietta ha fatto scuola, ancora prima dei Soprano.

Vent’anni dopo – e in mezzo Sud Side Stori, sempre musical ma tra gli immigrati africani – la regista torna alla sua magnifica ossessione, stavolta in chiave dark e psichedelica, complici le musiche di Mauro Pagani e, soprattutto, i brani che rielaborano i versi del dramma scespiriano. E ancora gli sfavillanti costumi di Massimo Cantini Parrini, le scenografie “sovraesposte” di Luca Servino, fotografate tra buio e luci accecanti da Matteo Cocco e le sgargianti coreografie di Francesca Romana Di Maio.

Massimo Ranieri, cranio rasato e in abiti di pelle nera, è -l’azzeccato – storpio e folle sovrano che parla davvero la lingua del Riccardo III, attraverso un riuscito lavoro sui dialoghi che tengono insieme i versi del Bardo, il linguaggio contemporaneo e pure citazioni da Marta Marzotto.

Come lui parlano i suoi fratelli, quei suoi freak canterini rinchiusi a spiare nei sotterranei del castello. E, soprattutto, la temibile Regina Madre (una Sonia Bergamasco sapientemente invecchiata di trent’anni) che muove nell’ombra le sorti della nobile e decaduta famiglia Mancini, sovrana nel malaffare e nello spaccio, in questo scorcio di periferia romana dove Riccardo torna una volta uscito dal manicomio, carico di odio e desiderio di vendetta.

Tra gli infiniti adattamenti dell’opera di Shakespeare, senza dubbio questo Riccardo va all’inferno (presentato a Torino e dal 30 in sala per Medusa) non passerà inosservato. Sovraccarico e psichedelico, ridondante e sofisticato dice, insomma, delle magnifiche ossessioni della regista, ma rischia proprio per questo la “monotonia” per eccesso. Peccato.