Oltre il confine, i paesaggi umani del cinema di Elisabetta Sgarbi

Passato al Torino FilmFest il nuovo film di Elisabetta Sgarbi, “L’altrove più vicino“. Un emozionante e ipnotico viaggio attraverso il confine con la Slovenia, quello che fino a ieri era il confine con il “comunismo di Tito”, narrato oggi da scrittori, musicisti ed artisti. Paesaggi umani e geografici che si intrecciano, attraverso identità culturali che si fanno migranti dal passato al futuro…

È un cinema di attraversamenti quello di Elisabetta Sgarbi. Attraversamenti di confini geografici, culturali, temporali, artistici di cui protagonista è sempre l’umanità, la più varia, amanti, partigiani, pescatori, badanti, con le loro storie personali che si fanno collettive nell’evocarne la memoria. Tessendo insieme nuove trame, nuovi tracciati a mettere in comune passato, presente e futuro, dove l’ordito è soprattutto letteratura.

Ce n’è sempre tantissima, infatti, nel cinema di Elisabetta Sgarbi, come lei stessa “denuncia” presentando questo suo ultimo film, ipnotico e affascinante, L’altrove più vicino, visto al Torino Filmfest. “Un materiale – dice – già pronto per diventare un libro”. E che di libri, di grande letteratura, a sua volta ne contiene davvero tanti.

Perché l’attraversamento del confine, stavolta, è quello con la Slovenia, dove Elisabetta Sgarbi arriva dopo aver narrato a più riprese Trieste (Trieste: la contesa e Il viaggio della signorina Vila), città cerniera della Mitteleuropa e al di qua della cortina di ferro.

A guidarci in questo altrove più vicino, quello che fino a ieri era il confine con il “comunismo di Tito”, sono le parole belle dei poeti e degli scrittori sloveni, l’ultra centenario Boris Pahor, letto da Toni Servillo e il 92enne Alojaz Rebula, ormai cieco, che racconta di boschi e alberi come uomini, ricordando quando il fascismo questa sua lingua l’aveva bandita “anche dalle tombe”. A riportare la sua opera in Italia (La peonia del Carso, 2017) è stata la stessa Elisabetta Sgarbi con la sua Nave di Teseo, a colmare il vuoto dei nostri editori così poco “generosi” nei confronti della letteratura slovena, ritrovata in questo caso grazie al cinema.

Ma ci sono anche gli italiani che quel confine l’hanno sempre attraversato e ne hanno fatto materia della loro narrazione. Il triestino Claudio Magris certamente, ma anche Paolo Rumiz che questo altrove più vicino (sua la bella definizione presa a titolo) lo vive quasi come un rifugio, un luogo dell’anima. Ricordandoci che “l’eroe nazionale” sloveno non è “un generale” a far rumore di sciabole, ma un pompiere. A simbolo di questi paesaggi fatti di boschi, di “nebbia di pianura e vento forte”, che sono già Balcani senza esserlo, per via del profondo radicamento della cultura austriaca. Una dominazione di secoli, quella Asburgica, che non ha mai aperto agli ottomani, finché Tito non l’ha catturata al grande sogno jugoslavo, finito quello sì col rumor di sciabole nel ’91, con la tragedia della guerra. Da cui la Slovenia è riuscita a venir via dopo appena dodici giorni di conflitto, dichirandosi indipendente.

È racconto di paesaggi umani e geografici che si intrecciano L’ altrove più vicino. Identità culturali che si fanno migranti dal passato al futuro, magari attraverso il teatro di ricerca di Dragan Zivadinov  che parte dalla terra per arrivare al cielo o attraverso la musica condivisa dell’European Spirit of Youth Orchestra del maestro Igor Coretti Kuret, che mette insieme ragazzi di tutto il vecchio continente, utopia realizzata, di rendere unita l’Europa attraverso la musica.

E noi spettatori siamo lì a lasciarci incantare in questo viaggio di confine, tra parole e immagini. Immagini magnifiche, rarefatte (nella splendida fotografia di Andres Arce Maldonado) di luoghi e persone che si fanno espressioni dell’anima, dello spirito, a tratti inafferrabili come le stesse identità culturali che troppo spesso di questi tempi sono preda dei nazionalismi.

Ecco L’altrove più vicino ci porta attraverso l’anima errante dell’Europa, la stessa che ha narrato un testimone del Novecento come Giorgio Pressburger, da poco scomparso e a cui il film – giustamente – è dedicato.