“Pericle il nero”, la camorra prima di Saviano
La difficile genesi del libro di Giuseppe Ferrandino, alla base dell’omonimo film di Stefano Mordini in sala dal 12 maggio e unico italiano nella selezione ufficiale di Cannes, dove passerà il 19 maggio. Un noir dal linguaggio diretto e crudo, rimasto “clandestino” per molti anni…
Sorprende davvero che un libro come Pericle il nero di Giuseppe Ferrandino (Adelphi 1998) sia passato inosservato quando uscì nel 1993 presso la casa editrice Granata Press (con l’autore che scriveva sotto lo pseudonimo di Nicola Calata), ben prima che Gomorra e Roberto Saviano traducessero la camorra in materiale letterario, cinematografico e televisivo.
Sorprende ancora di più che non sia stato utilizzato subito come traccia per un film di genere, di cui aveva tutti i requisiti, neppure quando i diritti del libro furono acquistati dall’editore francese Gallimard che, nel 1995, lo trasformò nel caso editoriale dell’anno.
Per la verità il regista Abel Ferrara aveva manifestato l’intenzione di portare la storia sul grande schermo, con Riccardo Scamarcio nel ruolo di protagonista, prima che lo stesso Scamarcio si assumesse l’onere produttivo per l’adattamento cinematografico del libro (con la sua casa di produzione Buena Onda e in collaborazione con Rai Cinema) affidando la regia a Stefano Mordini e spostando la vicenda da Napoli a Liegi e Calais.
Dunque, alla vigilia dell’uscita del film nelle sale italiane (dal 12 maggio per Bim) e a Cannes (il 19 maggio), vale la pena ripercorrere la storia di Pericle Scalzone, di mestiere camorrista al soldo di Luigino Pizza con il compito di sodomizzare le vittime per indurle a più miti consigli. Durante una di queste imprese, però, Pericle compie un errore che lo espone alla vendetta del suo padrino.
Da qui ha inizio una fuga in macchina, che porterà il nostro (anti)eroe prima a Battipaglia e poi in una Pescara sonnacchiosa e periferica, dove conoscerà l’immigrata polacca Nastasia. Con lei Pericle instaura un rapporto ruvido e passionale che lo guiderà verso la “redenzione”, intendendo con questa parola la presa di coscienza del proprio potere, la capacità di cavarsela nel mondo ambiguo e violento della camorra e la consapevolezza di essere diventato un vero “guappo”.
Il merito del libro sta soprattutto nel linguaggio diretto, persino crudo quando Pericle descrive certe imprese amorose e onanistiche, nei dialoghi secchi e incisivi con il ricorso al dialetto quand’è funzionale, ma anche nelle autoriflessioni accompagnate dall’hashish che sfociano in un autentico flusso di coscienza: “Ecco insomma a cosa mi faceva pensare a me la canna – afferma a un certo punto Pericle il nero –: erano pensieri così, che poi da soli diventavano altri. L’unica idea sicura era che non devi pensare troppo al perché e al percome, che è più conveniente fare, perché intanto a pensare ti attacchi al tram”.
Al di là della vicenda raccontata con maestria da consumato lettore di gialli americani, resta una descrizione di ambiente e uno studio dei nomi di rara efficacia. Un merito che con tutta probabilità andrà perduto nella trasposizione cinematografica, che ha scelto come “location”, appunto, una città diversa da Napoli. E qui, certamente, non avranno lo stesso impatto e la stessa capacità evocativa soprannomi e nomi come Signorinella, Sciacquetta, Recchiamoscia, Ciccillo Spaccarasca e Ciccio Mappina.
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