“Quella sera al Filmstudio quando sbottammo a ridere davanti a Warhol”
Memorie di un ex-ragazzo di provincia frequentatore dello storico cineclub romano, celebrato da Tony D’Angelo in Filmstudio mon amour. Le serate a dibattere di arte militante, di messaggio rivoluzionario, di forma e contenuto, ma anche le risate per gli “incomprensibili” mostri sacri della sperimentazione…
Vorrei dare un piccolo contributo personale alla discussione che mi auguro si aprirà sul film di Tony D’Angelo, Filmstudio mon amour, presentato mercoledì 21 ottobre alla festa del cinema di Roma. Noi, gruppo di amici che venivamo dalla provincia alla fine degli anni 60, dalla città di La Spezia per essere esatti, fummo accolti da una capitale sorniona e indifferente. Dopo pochi mesi il nostro gruppo – era questa la parola che andava di moda all’epoca per connotare gli amici che condividevano una passione, un’ideologia e le ore da dedicare al tempo libero dagli studi – si fuse con altre persone che avevano avuto a che fare con La Spezia per motivi di vacanza, di lavoro dei genitori o altro, e altri che non avevano nulla a che fare con quella città.
Uno dei punti di riferimento per le nostre serate fu, negli anni seguenti, il Filmstudio, che all’epoca vedeva l’impegno in prima persona nella programmazione e nella gestione di Adriano Aprà e di Enzo Ungari, il più noto dei transfughi spezzini, che poi sarebbe diventato scrittore, regista e sceneggiatore dei film di Bertolucci prima di morire giovanissimo, neppure trentacinquenne, per un male fulmineo e incurabile. Ungari era già stato animatore di un cineclub dell’Arci a La Spezia. Era stata un’esperienza che in qualche modo continuava e valorizzava la tradizione cinefila della mia città e che finì poi per essere travasata a Roma tramite Ungari e altri personaggi legati al cinema (i quali poi hanno preso strade diverse: fra gli altri il regista Oldoini).
Intendiamoci: l’approccio con il cinema romano non fu affatto élitario e un tantino snob com’era a quell’epoca il Filmstudio. Intanto si andava quasi ogni sera al cinema e non era mai, dico mai, un cinema di prima visione, dal momento che il costo del biglietto era per noi proibitivo. Le discussioni ideologiche legate al cinema erano una costante di quegli anni Settanta. Spesso la sera si perdevano intere mezzore per decidere dove andare ed era un problema scegliere un titolo che andasse bene a tutti. Poi si passava il resto della serata a sviscerare e commentare il film che avevamo visto. Quelle discussioni erano il riflesso di un più ampio dibattito che coinvolgeva il cinema – alcune tesi erano di difficile digeribilità: ad esempio quelle che tendevano a far coincidere il messaggio rivoluzionario con la tecnica usata, i famigerati «movimenti di macchina» – ma abbracciava temi più ampi: ricordo intere serate a dibattere di arte militante, di messaggio rivoluzionario, di forma e contenuto, di coerenza tra scelte ideologiche e scelte di vita, di mondo borghese e proletariato.
Certo è che, mentre era esistita fino allora una certa omogeneità di giudizio – i film cioè erano belli o brutti per la maggior parte delle persone –, in quegli anni iniziarono divaricazioni e distinguo anche nei giudizi sui film, anticipando una tendenza che si è poi consolidata nei successivi decenni. Woodstock e La battaglia di Algeri ne sono due esempi. Un altro dibattito si svolse, nel nostro gruppo di amici, dopo aver visto Freaks al Filmstudio. Alcuni lo difendevano e altri, tra cui io, erano contrari all’utilizzo dei mostri per fare spettacolo, trattandosi di mostri reali e non di fantasia. In realtà non furono solo i film proiettati al Filmstudio ad alimentare la discussione: quella divaricazione di giudizi e di sensibilità stava a indicare l’inesorabile tramonto dell’epoca d’oro del cinema. O forse ero io che non avevo più quello sguardo incantato, quella disponibilità ad abbandonarmi totalmente e a sognare. Del resto stavamo entrando nella maturità.
Una sera al Filmstudio proiettavano un film di Andy Warhol, Couch (Il divano), nell’ambito di un ciclo dedicato al cinema underground americano. Il film, in bianco e nero, era un susseguirsi di scene hard omosessuali, che si svolgevano sul “celebre” divano rosso della Factory, fra due protagonisti davanti a una telecamera fissa. Il pubblico assisteva in religioso silenzio, non osando pensare che un mostro sacro come Andy Warhol avesse fatto un film porno. Ecco: io non so dire se si trattava di un capolavoro o no, di sperimentazione o altro. So solo che un mio amico ed io cominciammo a ridere, prima in modo soffocato, poi in modo sempre più incontrollabile, contagiando anche uno spettatore che stava nella fila davanti alla nostra e che si scherniva con la moglie dicendo che la colpa era nostra. Qualcuno, indignato, intimò di fare silenzio ma ormai l’ilarità si stava propagando in tutta la sala.
Al Filmstudio, a parte quelli di Andy Warhol, vedemmo film sconvolgenti come Shock corridor e Repulsion, tutti i film dei fratelli Marx e di Buster Keaton (indimenticabile College), alcuni film musicali, tra cui The last concert dei Cream e quello dedicato al tour dei Rolling Stones con omicidio in diretta a Newport per opera degli Hells Angels, fino a Io sono un autarchico di Nanni Moretti. Quest’ultimo, alle cui proiezioni presenziava l’autore per saggiare gli umori del pubblico, fu quello che chiuse l’epoca del Filmstudio, almeno nei miei ricordi. Da allora iniziò un lungo oblìo durato fino ad anni recenti, quando la sala, anzi le sale, hanno riaperto – e in questo è stato determinante l’impegno personale di Gianni Borgna, quand’era assessore alla cultura di Roma – per offrire ancora una programmazione d’autore. Ma, certo, la magìa legata a quell’epoca difficilmente potrà ritornare.
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