Se Moby Dick va sempre di moda. James Cameron porta “Avatar 2” sulle tracce di Melville
In sala dal 14 dicembre (con The Walt Disney Studios) “Avatar – La Via dell’Acqua” l’atteso sequel di James Cameron che a distanza di 13 anni torna tra gli umanoidi watussi blu di Pandora che ora sono costretti all’esilio. E l’oceano è il rifugio dei braccati. Esattamente come nell’immortale romanzo di Melville, alle balene si dà la caccia con navi da guerra e arpioni con punte esplosive solo per ricavarne una fiala di estratto prezioso. Un racconto supremamente ecologico, un vero inno alla biodiversità spettacolare …
C’è poco da fare: Moby Dick funziona sempre. E i cetacei geneticamente modificati al computer, ribattezzati Tulkun, sono il vero cuore del secondo kolossal che James Cameron dedica all’universo mitico di Pandora, Avatar – La Via dell’Acqua, tredici anni dopo il blockbuster in 3D che ha registrato il record di incassi della storia del cinema, quasi tre miliardi di dollari, stracciando il primato detenuto per ben 12 anni da Titanic, per ironia firmato dallo stesso regista.
Dal 14 dicembre Avatar 2 invade le sale dell’Occidente manu militari: 1.200 copie solo in Italia, benchè la durata del film, 3 ore e 12, risulti scoraggiante. Titanic del resto durava di più, 3 ore e 14, e nel frattempo le serie tv hanno assuefatto al binge whatching, alla lunga resistenza degli spettatori davanti allo schermo.
Il grande futuro pronosticato al 3D si è sgonfiato, solo Cameron (qui sceneggiatore, regista, produttore e in parte anche montatore) tiene alta la scommessa sul cinema con gli occhialini, una scommessa temeraria da 350 milioni di dollari che lo stesso regista ha definito scherzosamente “il peggior modello di business della storia del cinema”. È quel tipo di investimento che può far fallire un colosso produttivo come la 20th Century Fox (Walt Disney distributore). Ma il regista canadese finora non ha mai fallito un bersaglio.
Gli umanoidi watussi blu di Pandora qui sono costretti all’esilio. O meglio è in fuga Jake Sully (Sam Worthington, il marine disabile del primo Avatar, ormai naturalizzato Na’vi, indigeno tra gli indigeni per libera scelta di parte) con sua moglie Neytiri (Zoe Saldana) e i suoi quattro figli, naturali o adottati. Perché la saga fantascientifica di Cameron appartiene dopotutto al filone di Balla coi lupi, denominato going native, quello del non-indigeno che compie una scelta di campo.
Militarismo e imperialismo del nostro presente (e passato) sono ancora i bersagli, ma questo sequel è soprattutto e supremamente ecologico, un vero inno alla biodiversità spettacolare. E dato che l’acqua è il nuovo elemento-guida, le creature blu sembrano uscite direttamente dalla canzone di Modugno.
La trama è iperconvenzionale, ma non conta. Non si va a vedere Cameron per la trama, ma per lasciarsi stupire. È un’epica di meraviglia visiva fatta di clichè narrativi, ma è proprio questo il segreto. Arrivano i nostri come nei western classici, ma hanno destrieri che sembrano delfini alati con le squame.
Tant’è che di qui al 2028 ci sorbiremo altri tre sequel già in cantiere. Il prossimo, uscita prevista nel 2024, è già in post-produzione. È come se questo autore addetto ai blockbuster dagli anni ’80 avesse ipotecato la propria vita su questa saga. Saga che poi si basa su un ribaltamento geniale: gli alieni, la “gente dal cielo”, sono gli umani, imperialisti, aggressivi, torturatori e distruttori. Hanno bisogno di un altro pianeta, perché il loro l’hanno distrutto. E hanno armi di distruzione micidiali, contro gli archi, le frecce e le lance dei pacifici nativi. Devono “addomesticare nuove frontiere” per trasferirvi l’umanità. Uccidere Sully, leader dell’insurrezione nel vecchio film, è il primo obiettivo.
L’oceano è il rifugio dei braccati. Il karma è universale: “La via dell’acqua non ha inizio e non ha fine, il mare è la tua casa prima della tua nascita e dopo la tua morte, l’acqua connette tutte le cose, la vita e la morte, il buio e la luce..”. Il popolo delle foreste si unisce al popolo del mare, i Metkayina, ma per integrarsi dovrà attraversare parecchie tappe. Sigourney Weaver rispunta in un paio di inquadrature come madre dell’avvenente – e magica – Kiki. La new entry è Kate Winslet (legata a Cameron da Titanic), irriconoscibile come combattiva madre acquatica.
Da un punto di vista strettamente spettacolare, i veri protagonisti sono la flora e la fauna marina, digitalmente alterati ma di una bellezza struggente: pesci volanti con ali di farfalla da cavalcare, anemoni che si illuminano come lampadine, balene che capiscono il linguaggio dei segni, “più intelligenti, più emotive, più spirituali” degli esseri umani.
Esattamente come nell’immortale romanzo di Melville, alle balene si dà la caccia – nel futuro distopico di Cameron – con navi da guerra e arpioni con punte esplosive solo per ricavarne una fiala di estratto prezioso, che qui è l’Ambrite, capace di bloccare l’invecchiamento umano. Il villain più cattivo di tutti, lo spietato colonnello che ha assunto le sembianze blu con i suoi mercenari per infiltrarsi, riesce a sopravvivere all’ecatombe generale – immaginiamo – solo per garantire una continuità ai prossimi sequel.
In sostanza, a parte le scaramucce con i bulletti che si annidano in ogni comunità senziente, l’azione vera parte dopo due ore e un quarto di film, ed è guerra aperta. Moby Dick, Titanic e perfino Bambi (perché la balena uccisa è una mamma che vuole proteggere il cucciolo): i riferimenti cinefili si sprecano, e non tifare è virtualmente impossibile. Siamo all’ABC del cinema, agli elementi basilari e fondanti, ma chissà se proprio di questo c’è bisogno per riportare il pubblico vero, quello dei grandi numeri, nelle sale.
Teresa Marchesi
Giornalista, critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come Inviato Speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, "Effedià- Sulla mia cattiva strada", su Fabrizio De André, premiato con un Nastro d'Argento speciale e "Pivano Blues", su Fernanda Pivano, presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
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