Se staffette vi sembra poco. La Resistenza delle donne nella Resistenza e dopo

In sala dal 20 aprile (per Lab80 Film) “Libere” di Rossella Schillaci, un bel documentario sulla Resistenza delle donne cancellata dall’antifemminismo di cui era imbevuto anche l’ambiente del CNL e della sinistra italiana. Attraverso prezioso materiale d’archivio il racconto di questa fondamentale pagina dell’ emancipazione femminile. A cominciare dalle parole: “staffetta non significa niente” spiega una partigiana “in verità noi eravamo ufficiali di collegamento: portavamo ordini, spianavamo la strada, creavamo contatti. E trasportavamo armi, plastico, esplosivi”. Fa una bella differenza, “staffetta” e “ufficiale di collegamento”, no?

 

“Non abbiate paura, non vi faccio ritardare il pranzo, parlerò tre minuti. Avrei voluto che in questo studio storico del CLN si parlasse un momentino dei Gruppi di Difesa della Donna. E debbo confessare che quando sono venuta qui a parlare, ero seccata, perché dico: ma, proprio io devo venire a parlare delle donne? Tutti gli uomini che hanno parlato prima, forse pensano che parlare delle donne non sia virile? Allora, vorrei, io vorrei, che qualche giovane studente, senza distinzione di sesso, non facciamo discriminazioni, volesse fare oggetto di studio quello che è stato il movimento femminile durante la Resistenza, dall’8 settembre al 25 aprile, per arrivare poi a vedere quella che è stata l’azione delle donne uscite dai Gruppi di Difesa e dai CLN, nelle varie Amministrazioni o nelle posizioni di Governo o di Amministrazione che hanno avuto poi allora».

Fu questo l’unico, fulmineo e fulminante intervento dell’unica partigiana invitata nel 1965 al convegno del Comitato di Liberazione Nazionale (CNL) di Torino. Lei era Ada Gobetti, medaglia d’argento al valor militare e vice-sindaco di Torino nel 1945-46.

Nonostante il tono quasi familiare dell’incipit, in quella manciata di parole c’erano un’analisi spietata dell’antifemminismo di cui era imbevuto anche l’ambiente politico del CNL e della sinistra italiana, e la richiesta di affrontare temi e domande scottanti. Domande che allora attendevano da vent’anni e che ancora oggi, settant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale aspettano una indagine approfondita.

Una prima, parziale ma significativa risposta arriva adesso con Libere, il bel documentario di Rossella Schillaci nelle sale dal 20 aprile, prodotto dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e distribuito da Lab80 Film, che segue di pochi mesi  Nome di battaglia donna di Daniele Segre.

Sono 75 minuti di film che portano al grande pubblico materiali e testimonianze originali di una raccolta iniziata nei primi anni Ottanta: migliaia di racconti filmati, una paziente ricerca di rare immagini sulla Resistenza, lunghe interviste a partigiane anche molto note, ormai per la maggior parte scomparse, 800 pagine di interviste trascritte e l’analisi di 40 film d’epoca.

Andare a vederlo (e in giro per l’Italia, come per esempio a Milano e a Ferrara, il film sarà accompagnato dalla presenza della regista e/o da alcune partigiane ancora viventi) potrebbe essere l’occasione giusta per ricordare il 25 aprile. Ricordare. Non celebrare, né tanto meno festeggiare.

Perché, come dice Joyce Lussu, una delle tante combattenti intervistate, “noi eravamo convinti, ma anche sognatori. La gente era piena di speranza. Sognavamo un mondo diverso, migliore, giusto. E invece che schifezza che c’è. Quante delusioni. È andato tutto in fumo. Tante conquiste, tante lotte, un po’ alla volta stiamo perdendo tutto. Tutto”.

E noi oggi possiamo leggere in quel “tutto” non solo le leggi sul lavoro e la maternità (o il suo rifiuto), gli asili nido nelle fabbriche, la parità nei salari o nella rappresentatività politica, ma anche la deriva omicida dell’impotenza maschile, la violenza contro le donne e quello che negli anni Settanta avremmo chiamato lo “specifico femminile”.

L’istanza dell’emancipazione, sostengono le voci schiette di Gobetti, Giuliana Gadola Beltrami, Bianca Guidetti Serra, Marisa Rodano, Alda Bianco, Lucia Boetto Testori, Anna Cherchi, Marisa Sacco, Carla Dappiano, Maria Airaudo e altre, trova le sue radici nella Resistenza.

Ci fu, dopo l’8 settembre, una vera e propria Resistenza al femminile, parallela e diversa, che ancora oggi aspetta di essere studiata senza censure o pregiudizi. Pensiamo solo al ruolo e alle “parole per dirlo”: poche di loro, racconta il documentario, sono state combattenti, e molte agivano per lo più in ruoli subalterni. Il più importante fu quello della “staffetta”. “Ma staffetta non significa niente” ci spiega una di loro. “In verità, noi eravamo ufficiali di collegamento: portavamo ordini, spianavamo la strada, creavamo contatti. E trasportavamo armi, plastico, esplosivi”. Fa una bella differenza, “staffetta” e “ufficiale di collegamento”, no?

Quell’appoggio alle azioni militari da parte di donne diversissime per estrazione sociale e culturale, donne braccianti, operaie, scrittrici, avvocate, insegnanti che parteciparono alla lotta di liberazione nazionale creò i presupposti di una trasformazione più epocale, più radicale: quella delle donne italiane, costrette dalla cultura cattolica e dal ventennio fascista al ruolo biologico della fattrice e a quello sociale della moglie devota.

Lo testimonia apertamente Giuliana Gadola Beltrami: «Per me il femminismo è nato nella Resistenza. Tanto è vero che quando io le interrogavo, la mia prima domanda era sempre: “Perché l’hai fatto?”, venivano fuori le risposte più disparate, ma tutte in un certo senso univoche, cioè: l’ho fatto perché non mi piaceva la vita che facevo, l’ho fatto perché volevo essere libera. Ciascuna di loro voleva emanciparsi, voleva tirarsi fuori. Voleva precisamente superare il ruolo».

E dopo la vita in clandestinità, i collegamenti tra i gruppi, i massacri visti e subiti, per qualcuna anche il lager, dopo che il “no” a quello che vedevano e vivevano le aveva “portate a far la rissa anche io”, dopo l’uguaglianza del cameratismo dei monti, il ritorno alla pace è per le donne tutte, e per le partigiane in modo ancor più doloroso, un ritorno all’antico, un’illusione, peggio: una delusione.

Libere racconta con una ricca e partecipata scelta di materiali, anche la transizione dalla Resistenza alla “restaurazione” dei primi anni del dopoguerra, nel doppio registro del ruolo sociale e della valenza politica, che per le donne in generale  voleva anche dire riuscire ad emanciparsi dallo sguardo severo e condizionante della Chiesa e del suo dettato sociale e politico: “Qualcuno pensava, ed io ero d’accordo, che non bisognasse dare il diritto di voto alle donne per almeno sei anni, perché avrebbero votato quasi tutte per la Democrazia cristiana…”, confessa una delle voci narranti.

Da un lato dunque la difficoltà ad uscire dal bozzolo della “massaia che oggi sa organizzare il lavoro in casa pur mantenendo il suo aspetto aggraziato e gradevole”, come ci ricorda uno spezzone inedito piuttosto agghiacciante, dall’altro il portato del voto femminile alle elezioni del 2 giugno; da un lato i turni in fabbrica “e l’unico giorno libero a pulir a fondo la casa”, dall’altro le prime donne faticosamente elette e il primo isolamento subito dai partiti, non certo ultimo il Pci; da un lato la nascita dell’UDI e dei primi movimenti femministi, dall’altro il boicottaggio del marito partigiano al desiderio di prendere la patente: “Ma io mi sono iscritta lo stesso. Ho fatto la Resistenza mica per niente!”

Queste donne antiche erano così: combattenti e fiere, sincere, sognatrici, terribilmente concrete. Ci hanno lasciato un Paese liberato che stiamo mandando definitivamente in malora e una visione del futuro che forse proprio noi donne dovremmo indossare come il nostro più bell’abito: “Tutti avevamo paura, ma il coraggio sta precisamente nell’andare avanti lo stesso anche se si ha paura”.

Buon 25 aprile.