L’Orso d’oro ai migranti, quello d’argento all’Europa dei conflitti

Gianfranco Rosi trionfa con la denuncia dell’Olocausto dei profughi nel suo “Fuocoammare”. Danis Tanovic lo segue con “Death in Sarajevo” ispirato alla pièce di Bernard-Henri Lévy in cui ancora una volta è centrale la guerra. Insomma un palmarès politico e di grandi emozioni…

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Per Danis Tanovic, regista bosniaco da Oscar, i conflitti sono sempre stati importanti occasioni di riflessione del suo cinema. Frontalmente, fin dal suo fortunato esordio, No man’s Land, passando implicitamente in An episode in the life of an iron picker in concorso a Berlino 2013, racconto dell’estrema povertà di un raccoglitore di ferro e della sua famiglia, con una moglie impossibilitata a curarsi per mancanza di assicurazione sanitaria.

Ora in Death in Sarajevo, liberamente ispirato alla pièce, Hotel Europa di Bernard-Henri Levy, Tanovic gioca la carta della metafora. Nell’ hotel Europa, oggi, fervono i preparativi per il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale, a seguito dell’omicidio di Ferdinando d’Asburgo per mano del rivoluzionario Gavrilo Princip. Sono attese figure di spicco per la celebrazione e per lanciare – si presume – un messaggio di pace. Ma gli scontri non mancano, anzi: il personale proclama uno sciopero per ottenere le retribuzioni che rischia di far saltare l’evento.
Tanovic esplora lo spazio dell’hotel, dai piani bassi fino al tetto, e spia gli ospiti all’interno delle stanze. Tra commedia e tragedia, dolore e grottesco, si sviluppa un piccolo film (85 minuti) che osserva il lato intimo e l’interazione  dei personaggi: il loro privato è politico, vista la collocazione dell’intreccio che rievoca in filigrana lo spettro della guerra. Non sembra componibile la diversità delle posizioni, in particolare nel giudizio sulla figura di Princip, considerato dai bosniaci eroe nazionale ma visto dagli altri come la pistola fumante che aprì le ostilità.
Impropriamente paragonata a Bobby di Emilio Estevez, con cui condivide la sola coralità alberghiera, la pellicola è la quota balcanica nel concorso berlinese, metafora aperta e dichiarata (d’altronde l’hotel si chiama Europa) che riflette sulla Storia di ieri che arriva nell’oggi, sul conflitto come nostro elemento costituivo, sull’incapacità umana di ricomporre gli scontri.

Il film ha il respiro della miniatura, il passo leggero dell’intreccio minimo e porta il peso del suo significato: intuito presto dove vuole parare, la lezione diventa evidente e non c’è più nulla da sapere. Ma è così tutto il cinema di Tanovic, che cambia le componenti e gira sempre (legittimamente) lo stesso film, portatore di un messaggio preciso, come il protagonista di No Man’s Land che sentenziava: “La neutralità è già una scelta”. Qui, all’interno dell’hotel/continente, in una terra segnata dai conflitti, il significato è altrettanto solare: cento anni dopo non c’è più la guerra mondiale ma l’azione dell’uomo continua a oscillare tra il comico e il tragico.