Ai Weiwei, il Savonarola dei diritti umani in sala
In sala dal 2 al 5 settembre (per 01 Distribuzione) “Human Flow” dell’artista cinese dissidente, Ai Weiwei, passato in concorso a Venezia. Un viaggio attraverso ventitré Paesi del mondo per raccontare le condizioni degli sradicati. Tra campi profughi ed esodi biblici, Ai Weiwei si mette davanti alla telecamera e interviene direttamente raccontando di sè. Il suo porsi tra loro è un gesto politico. E insieme un atto di egotismo. Quasi un Savonarola dei diritti umani…
Ai Weiwei, artista e attivista, arrestato dal governo cinese e poi rilasciato, stavolta regista. E oltre 65 milioni di persone nel mondo che sono costrette a lasciare le loro case: “Essere rifugiato non è una condizione, è un crimine contro l’umanità”, si dice.
Human Flow arriva in concorso al Festival di Venezia e – come previsto – si rivela titolo pesante di inizio competizione. I migranti come flusso umano, quello che l’autore, nel suo lavoro titanico e inedito, ha seguito per un anno in ventitré paesi del mondo: Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Iraq, Israele, Italia, Kenya, Messico, Turchia. E altri.
La cinepresa di Ai Weiwei mostra corpi sui barconi, persone che attraversano fiumi, manifestanti che chiedono dignità. Gli sradicati parlano in prima persona, guardano in camera, raccontano con dolore il loro drammatico peregrinare: una madre in marcia col bambino, una donna incinta sul barcone, un ragazzo iracheno senza un braccio al tempo dell’Isis. È un film liminare, di confini e fili spinati, che va dai profughi palestinesi a Gaza ai disperati nell’oceano, passando per piccole e grandi crisi, miserie orientali e occidentali.
Nel viaggio cambiano piani e panorami insieme a cromatismi e inquadrature. Ma è anche – purtroppo – un film di parole: Ai Weiwei entra in campo, interviene direttamente in prima persona, dialoga con i migranti, li conforta e aiuta, scherza con loro. Da una parte lui, artista dissidente di un regime, si pone sullo stesso piano dei popoli in marcia senza patria; dall’altra offre lo sguardo di un artista visuale sul dramma dei migranti, non è un regista che li segue ma il noto Ai Weiwei, il suo porsi tra loro è un gesto politico. E insieme un atto di egotismo che inserisce se stesso all’interno dell’inquadratura.
Ai Weiwei dunque grida, non conosce sottintesi, puntualizza con citazioni, si fa Savonarola dei diritti umani. Ai personaggi affida l’urgenza di ciò che bisogna dire, che per lui non si può tacere: e costoro dicono tutto, davanti alle sue interviste, espongono lo sforzo e il dolore di migrare con chiarezza, legittimamente, senza nulla di taciuto. La loro testimonianza prescinde dalle immagini e le spiega nel dettaglio.
Sull’essere profughi aveva già detto Wang Bing, tra i maggiori documentaristi viventi, alla Berlinale 2016 con Ta’ang: egli seguiva la marcia degli sradicati in fuga dalla guerra in Birmania, andava con loro, li accompagnava nel cammino su sottofondo di spari. Non ha il suo sguardo scientifico Ai Weiwei, né l’appostamento in cerca dell’attimo, né il pudore del fuori campo: non sa ottenerli, si limita alla composizione dell’inquadratura dell’artista visuale.
Come l’operazione compiuta da Michael Glawogger in Workingman’s Death, che girava il mondo per guardare le condizioni di lavoro, qui si registra l’essere rifugiati. Nell’addensarsi di voci e immagini si forma gradualmente un paradosso: può dirsi una società quella che estirpa gli individui dalla terra? E in questo dubbio c’è ovviamente un messaggio. Prolisso, evidente e ripetuto. Tanto esplicito nella sostanza quanto ammaliante nella forma, a tratti, quando trova il quadro visivo senza parole. L’esodo dei rifugiati è significante in sé, senza bisogno di doverlo dire. A suo modo, anche un’opera unica: nessuno oggi ha girato ventitré Stati per filmare i migranti, ne va dato atto. Piacerà alla giuria di Annette Bening.
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