Attraverso il muro. La passione di Koudelka in Terra Santa
In sala dal 2 ottobre (per Lab 80 film) “Josef Koudelka fotografa la Terra Santa” di Gilad Baram. Il racconto di cinque anni di reportage di uno dei più grandi fotografi contemporanei, in una delle zone di conflitto più cruciali del pianeta. Ossia il lavoro che Koudelka, storico fotografo della Primavera di Praga oggi ottantenne, ha svolto lungo il muro che separa Israele e Palestina tra il 2008 e il 2012. E non c’è atto più “politico” di questo raccontare…
Lo sguardo è già un giudizio. Le “cose” già rivelano. La Terra Santa del titolo è diventata terra predisposta, preparata al conflitto. Le recenti costruzioni umane stanno a ricordarlo e in un certo senso anche a stabilirlo. Il muro, soprattutto. Un muro, due prigioni, si usa dire. Chissà. Forse addirittura mille o milioni di prigioni, individuali, di religione, d’appartenenza.
Josef Koudelka (uno dei più importanti fotografi viventi, nato in Cecoslovacchia nel 1938, nel gruppo dell’agenzia Magnum), accompagnato dal giovane regista e fotografo israeliano Gilad Baram, ha viaggiato tra Gerusalemme Est, Hebron, Ramallah, Betlemme e gli insediamenti israeliani dislocati proprio lungo il muro che separa Israele e Palestina, tra il 2008 e il 2012. E gli scatti realizzati dal grande fotografo, divenuto celebre giovanissimo per le bellissime immagini con le quali descrisse la Primavera di Praga, sono i coprotagonisti del film di Gilad Baram.
L’altro protagonista è Koudelka stesso: il lavoro paziente e cocciuto del fotografo, inizialmente riluttante all’essere filmato, che poi cederà difronte all’altrettanta tenacia del giovane regista.
Josef Koudelka: 80 anni e ancora gli occhi di un bambino curioso e furbetto. “Sono cresciuto dietro il muro. Per me era la prigione, ero in gabbia. Per questo, naturalmente, non l’ho mai amato. Ma questo Muro, a modo suo, è spettacolare”, dice Josef Koudelka, avido nell’entrare in relazione con le “cose”. Con tutte le “cose”. Non ci si aspetti da lui particolari strani, o invettive. La realtà è quel che è: lui deve vederla e poi farla ritrovare. Ossia, trovare lo “scatto”, tra i tanti, che la rappresenti meglio che si può. Approfittando del fatto di essere senza padroni, con la libertà quindi di guardare dove si vuole.
“Capita di arrivare in un posto e di pensare: qui c’è una fotografia che mi sta aspettando”. Una ed una sola fotografia. Bisogna “soltanto” trovarla.
Josef Koudelka è anche stupito dalla militarizzazione del territorio, e si dibatte così tra rammarico e il lavoro, serissimo, del documentare. Un lavoro da fare senza emozioni, con rigore: in modo che altri semmai si facciano opinioni. O costruiscano per se stessi delle sensazioni. Un lavoro concreto. Senza voler “comprendere”, nel senso letterario del termine, ossia “prendere insieme”. Un lavoro da solitario, insomma; da entomologo delle pieghe più esecrabili del nostro mondo contemporaneo.
Josef Koudelka classifica. Ordina. Manda in memoria. Osserva lì dove c’è da osservare. Con mania, studiando ogni inquadratura, con un metodo certosino che ricorda molto quello di un grande del cinema documentaristico: Frederick Wiseman.
“Cerco di mantenermi distaccato, per quanto posso, perché so che non cambia nulla che io me ne interessi o meno”. Eppure ha voluto vedere. Ha voluto mostrare. Come a Praga, nel 1968. E non c’è atto più “politico” di questo raccontare.
Ecco allora una porzione di mondo come in scatola, tra un muro ed un altro. Barriere fatte di bidoni, di case, di macerie, di persone. O dalle costruzioni di una città araba inesistente, finta, creata ad arte, con rara minuzia, per far svolgere le esercitazioni dell’esercito israeliano.
Soltanto davanti ai monti bassi e argillosi di quella terra messianica, monti ancora non “tagliati” da nessun muro, Koudelka si lascia rapire senza nascondersi. È scosso. Abbassa l’obiettivo della sua macchina da presa. Ha già tentato di raccontare quei luoghi, ma alcuni sono “visibili” davvero solo incantandosi davanti ad essi: “non posso fare meglio di così”, dice osservando uno scatto già fatto. “Non sono un tipo molto spirituale, ma se Gesù è esistito, non è strano che sia tornato in questo deserto”.
Il “freddo” Koudelka è in realtà un tipo molto passionale. I cinque anni di reportage in una delle zone di conflitto più duraturo del pianeta racchiusi in Josef Koudelka fotografa la Terra Santa di Gilad Baram, che sarà nei cinema italiani da lunedì 2 ottobre, distribuito da Lab 80 film, colmano infatti di emozioni intense. Le sue immagini “distaccate”, precipitano nei nostri animi e si condensano nella nostra testa. Un processo emotivo, evitato da Koudelka, che invece finisce con il contagiare chi guarda le sue foto, con l’idea che il suo sguardo possa benissimo essere proprio anche il nostro.
Enzo Lavagnini
Regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico. Suoi i documentari: "Un uomo fioriva" su Pasolini e "Film/Intervista a Paolo Volponi". Ha collaborato con Istituto Luce, Rai Cultura e Premio Libero Bizzarri. Tra i suoi libri, "Il giovane Fellini" , "La prima Roma di Pasolini". Attualmente dirige l'Archivio Pasolini di Ciampino
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