Bodini, un poeta e un film dimenticati
Storia di un tentativo, appassionato, di portare sul grande schermo l’opera di un grande autore salentino. Nel racconto di un giovane filmmaker…
Vittorio Bodini (Bari, 1914 – Roma, 1970) è stato intellettuale, studioso, fra i più noti traduttori dallo spagnolo e soprattutto è stato narratore e poeta, forse il maggiore dei più sensibili e impietosi che il Salento abbia avuto.
Undici anni fa mi sono accostato al suo mondo con una sceneggiatura tratta dal racconto Il Sei-Dita. È una storia di più piani temporali e più vicende, tutti tessuti secondo motivi fantastici e segreti: il porco nero destinato al mattatoio che apre il racconto si accosta alla storia di un vecchio disilluso patrizio leccese; questa s’accorda a quella d’un macabro custode di cimitero dal gusto necrofilo, che a sua volta è intrecciata a quella della sua infelice sposa; e questa, ancora, si combina a quella di un vedovo zoppo coi pantaloni a rigatino. La penna di Bodini tutto lega e annoda, in modo inatteso e incredibile, secondo modi ora realistici ora onirici. E come molti suoi scritti, ogni cosa è imbevuta di surrealismo, fantasia, simbologia popolare, arcaicità.
Leggendo questo racconto ero rimasto affascinato e come stordito. Mi pareva avesse qualcosa di Tomasi di Lampedusa, quel racconto; qualcosa del Deserto dei Tartari; qualcosa dei pittori macchiaioli; e qualcosa di metafisico. Era solido e irreale. Ed era profondamente lirico pure nella prosa.
Avevo 23, 24 anni ed ero stato chiamato da un attore-regista salentino che voleva fare un film proprio dal Sei-Dita. Esperienza devastante e formativa sotto molti punti di vista: non essendoci una vera e propria scadenza, avevo potuto passare molto tempo a leggere tutto quello che era stato pubblicato di Bodini; a prendere molti appunti; a organizzare degli incontri con alcuni docenti dell’Università di Lecce; a studiare un po’ di tradizioni popolari; a fare davvero tanti, tantissimi sopralluoghi nei dintorni del Cimitero Monumentale dove il racconto è ambientato… Insomma, andavo scoprendo Bodini ma non solo; andavo scoprendo soprattutto il mio Salento, dal quale me ne ero andato anni prima, e un poeta che meglio di tutti, notavo, definiva il mio stato d’animo di provinciale in fuga.
I temi della partenza e del ritorno nella propria città d’origine, nel proprio paese, così sgradito da doverlo amare, sono tematiche bodiniane anche dal punto di vista biografico. Quando nel 1949 rientrava a Lecce dalla Spagna dove era andato grazie a una borsa di studio tre anni prima, non solo Bodini scopriva la Spagna, non solo riscopriva il Salento ma creava un mondo, una mistura ispano-salentina. In Spagna aveva trovato il Salento. Fuori si era finalmente riconciliato con le sue radici. Sgradite e amate. Era un Salento che odiava con tutto se stesso ma a cui non sapeva sottrarsi. Non poteva sottrarsi.
Inoltre, la questione del Sud, la questione politica in lui si faceva tutt’una con la questione filosofico-esistenziale, come nel Gattopardo; e tutto si faceva poesia.
Leggendo Bodini ho iniziato a vedere il Salento con quegli occhi che non sapevo di avere e che erano occhi di un autore che prima di me aveva odiato il Salento, lo aveva amato e poi l’aveva odiato ancora; e prima di lui e dopo di me tanti altri. Solo che Bodini lo aveva raccontato in modi così profondi e precisi che non li avevo trovati da nessuna parte.
Il modo in cui descriveva l’immutabilità politica del Sud, del Salento, di Lecce, un’immutabilità tutta trasfigurata dalla luce della poesia, fu una scoperta. Dice Bodini di Lecce, nel finale del Sei-Dita:
La città è lontana da altre città, e da ogni parte s‘affaccia a una campagna d’aridi tufi e di contorti alberi, senza nemmeno un fiume, un miserabile ruscello che si porti via qualcosa o ne dia l’impressione agli occhi di chi guarda, col suo scorrere, e in tale isolamento la sua vita è assai poco dissimile da quella d’una guarnigione sepolta nella noia, che non ha altro ideale che quello di passare il tempo, e lo persegue da mattina a sera coi giochi di carte e il dileggio (soltanto qualche saggio o qualche monsignore all’imbrunire passeggiano lungo le sue mura).
In Bodini il Sud diventava una condizione dell’esistenza. Era bello, certo, ma impossibile e tale impossibilità la sua imprescindibilità. Schiacciato da un cielo immenso, altissimo (un visibile nulla, direbbe Pessoa) che lo sovrastava e che rendeva la sottostante pianura una sterminata landa desolata, incapace di reagire, spossata prima ancora di qualsiasi fatica, stremata appena nata, ogni cosa lì era inutile, ogni cosa appariva consumata. Impossibile anche che questo non si riflettesse nei suoi abitanti, ancora come in Tomasi di Lampedusa.
Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie di tabacco,
e ancora non s’accende un lume.
Viviamo in un incantesimo,
tra palazzi di tufo,
in una grande pianura.
Sulle rive del nulla
mostriamo le caverne di noi stessi.
Il barocco, la cartapesta – emblemi di Lecce nel mondo – diventavano vanità, ostentazione, gioco per rammendare la tela della noia quotidiana. Non si trattava più di riempire il Salento, ma di svuotarlo.
Ecco perché non serve farcirlo di eventi e iniziative, perché, facendolo, si consuma, si snatura: il Sud di Bodini era un Sud noioso, arido; ma anche magico e bellissimo.
Non so perché mi ostino a tornare di volta in volta su di lui, su questa figura di autore dimenticato della nostra letteratura. C’è che l’ho amato fin da subito. È stato un grandissimo autore di poesie e di racconti; e non di romanzi, perché la forma lunga non era il suo terreno. Ne tentò uno che lasciò incompiuto, Il fiore dell’amicizia. E poi un altro, che scelse di lasciare non finito.
Lo conoscono in pochi, purtroppo, a esclusione della cerchia ristretta di accademici e letterati; e quei pochi comunque sono appassionati di letteratura. Non si capisce come eppure è accaduto che un poeta di livello, pubblicato da Mondadori e Scheiwiller, sia caduto quasi nel dimenticatoio.
Il film? Non l’ho fatto più. A me e ai miei collaboratori prese almeno due anni di lavoro, dieci stesure e per sua causa scontai sulla mia pelle una seria nevrosi. In seguito, ho provato a farlo produrre in moltissimi modi. Ho preso i diritti del libro. Ho coinvolto Roberto Herlitzka, per fare il coprotagonista, ho chiesto a Paolo Carnera di fare la fotografia; di entrambi conservo le loro gentilissime lettere di adesione. Ho avanzato proposte di product placement, di coproduzione… Ho sentito un paio di importanti – ancora oggi importanti – produttori italiani. Ho finito anche con l’incontrare loschi figuri in un albergo vicino via Veneto. Ho chiesto pareri ad amici e conoscenti e sono arrivato fino a Enrico Medioli per una consulenza senza impegno – la sua telefonata a casa la ricordo ancora e con grande affetto. Nulla. Non se n’è fatto nulla. Troppo giovane io e troppo ambizioso il progetto.
E se di tutto il mio lavoro nulla è rimasto, quel che è restato invece sono una storia e un poeta. Entrambi scoperti undici anni fa, entrambi nascosti dentro di me da sempre.
Gianluca Colitta
Regista, fotografo e insegnante italiano. Dal 2004 a oggi ha realizzato video sperimentali, cortometraggi, progetti di fotografie, alcune performance e video-installazioni, e un libro.
Ha fondato una società di cinema e arti visive e un blog di immagini, collabora con riviste, insegna italiano agli stranieri, tiene seminari sulla sceneggiatura. I suoi lavori sono stati presentati in Italia, Belgio, Cina, Romania, Regno Unito, Austria, Spagna, India, Finlandia e Stati Uniti.
Vive e lavora in Belgio.
http://www.gianlucacolitta.com
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