Caro Duce ti dono il mio naso. Il doc di Martella su Sky per “Le guerre di History”

In onda martedì 3 maggio (ore 21 sul canale 408 di Sky) per la serie “Le Guerre di History”, il documentario “Mio duce ti scrivo” di Massimo Martella. Un carteggio sterminato di centinaia di migliaia di lettere che gli italiani scrivevano a Mussolini per i più vari motivi. Un viaggio nel ricordo di un’epoca che ci porta nel vortice oscuro del rapporto dell’individuo, e della massa, con il Potere incarnato nel Capo. Presentanto al Taofest e in dvd per Istituto Luce-Cinecittà…

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“Caro Duce, ti dono il mio naso”, si potrebbe cominciare anche così, con un cenno gogoliano, a raccontare di Mio Duce ti scrivo, il film di Massimo Martella.

Si tratta di un viaggio davvero interessante che inizia col passo leggero, quello della memoria storica, del ricordo d’epoca, e poi ci porta fin dentro, senza poterci noi più sottrarre, dritti dritti nel vortice oscuro del rapporto dell’individuo, e della massa, con il Potere incarnato nel Capo; un rapporto frutto di magnetismo e pieno di ambiguità.

Durante il fascismo, migliaia di italiani scrivevano lettere al Duce, quotidianamente: una montagna di lettere; per i motivi più disparati: per chiedere un aiuto economico, o lavoro, per esprimere affetto e devozione al Padre della Patria, se non addirittura amore, nel caso di molte donne, o ancora per delazione, e per tanti altri motivi.

Scrivevano analfabeti, con l’aiuto di scrivani pubblici, contadini, nobili, studentesse, suore, prostitute, scrittori, bambini, operai e soldati dal fronte di guerra.

Leggendo queste lettere, rintracciate per la maggior parte dal regista nell’Archivio di Stato, si può ben rileggere tutta la storia del fascismo, testando così l’adesione popolare al Regime in tutte le sue fasi. Fino all’entrata in guerra ed anche oltre. Un’adesione costruita con minuzia, così come era stata costruita, ed era disseminata ovunque e pervasiva, l’immagine resa icona del Duce.

L’Uomo della Provvidenza aveva “creato” il tutto con la formidabile macchina di propaganda del fascismo, di cui il cinema, ed il Luce stesso, furono parte preponderante; cosa che, unita al controllo poliziesco della popolazione, alla censura, ai miti dell’Impero e dell’autarchia, aumentava a dismisura il riconoscimento del suo potere, la sua popolarità, ed il ricorso a lui, come si vede in qualunque circostanza. Gustose citazioni nel cinema di questo mito incarnato ed onnipotente del ventennio sono in Amarcord di Fellini, ma anche in Telefoni bianchi di Dino Risi.
Il Duce leggeva le lettere e rispondeva. Quando non arrivò più a rispondere a tutti, un apposito ufficio costituito presso il Ministero degli Interni si incaricò di seguire questa sempre più voluminosa corrispondenza e di classificarla.

Ma arriviamo al “famoso” naso del Duce. In un attentato il colpo di una pistola glielo passò da parte a parte. Per molto tempo Mussolini coprì la ferita con un cerottone. All’indomani dell’attentato vi fu pure, come narra il documentario, un signore che offrì il proprio naso al Duce, sicuro di rimarginare, per esperienza, in fretta la ferita dell’asporto, e preoccupato solo che la pigmentazione della pelle fosse omogenea con quella del Duce. Quest’ultimo, o il suo staff, rifiutò perché il Duce guariva di suo, ringraziando comunque l’estensore della missiva per la tangibile prova d’amor patrio.

Anche Andrea Camilleri scrisse al Duce, lo racconta nel film di Martella. Da bambino molto ardimentoso chiese al Capo supremo di mandarlo a combattere in Africa, per dare così il suo contributo alle sorti dell’Impero. Il Duce rispose di attendere, che era ancora piccino, ma che al momento opportuno sarebbe stato chiamato.

Scrivevano donne innamorate, ansiose di conoscerlo e talvolta di concedersi a Lui. Scriveva gente comune per congratularsi per l’approvazione delle leggi razziali contro gli ebrei. Scrivevano fascisti perché c’erano altri fascisti che avevano fatto più carriera di loro.

Scrissero in tanti quando il Duce perse il figlio Bruno, per solidarietà, quasi ci fosse vicinanza fisica e rapporto familiare; quasi il Duce fosse per loro uno di casa. Scrisse una madre per dire che bisognava che ogni donna si privasse dell’oro per donarlo alla Patria e contribuire allo sforzo bellico, al pari degli uomini; e pare che proprio da questa lettera il Duce ebbe l’idea dell’offerta, pubblica e di massa, delle fedi matrimoniali alla Patria.

Scrivevamo donne che volevano andare al fronte a combattere. In tanti incitavamo alla guerra con parole di fuoco. C’era chi scriveva del duce come fosse un Dio, e come tale lo pregava. Nel tramonto già avviato del fascismo arrivarono anche lettere di critica e talvolta piena di invettive.

Con le lettere degli italiani al Duce Massimo Martella ci conduce proprio laddove si scopre la vischiosa mostruosità del Potere. Certo, i Capi fanno la loro parte, ma talvolta l’individuo è ancor più “mostruoso” del Potere, perché ne assume con “fede” formule e propaganda, nel nome e per conto di un “noi”, la cui natura retriva, nazionalista (o altro) giustifica ogni cosa, ogni incitamento, ovviamente acritico, ogni nefandezza. “Il vero boia è la massa”, scriveva Elias Canetti.

L’osservazione dell’infatuazione, quella sorta di “religione” che è l’adorazione del Capo, che abbiamo visto essere vigente in molte parti del mondo e in varie epoche, qui però con Mussolini, nella variante specificamente italiana, ci consente di guardarci dentro con un poco di preoccupazione: l’ “innocua” “gente comune” può divenire “massa”, manovrabile, fanatica, ed anche carnefice. E questo dittatori, aspiranti tali ed i loro spin doctors lo sanno bene.