Dario che amava le rivoluzioni
Anche quella cinese, perché era una rivoluzione contadina. Che portava con sè tutta la ricchezza poetica, magica e affabulatoria di quella cultura millenaria che Dario Fo ha raccontato nelle sue giullarate sempre dalla parte del popolo schiavo…
Dario Fo amava Mao Zedong, o meglio Mao Tse-tung come si diceva all’epoca. Lo amava per quello tsunami ideale che con la lunga marcia aveva portato un popolo immenso ad emanciparsi fino alla rivoluzione.
Amava l’idea maoista più che la sua concretizzazione: il progetto di una rivoluzione culturale che affondava le sue radici nella storia millenaria di un paese gigantesco. D’altro canto, se Fo fosse stato cinese, sarebbe stato sicuramente un dissidente.
È lui a raccontarcelo in Storia della tigre ed altre storie, dove un contadino che ha partecipato alla lunga marcia addomestica una tigre e la tiene con sé a protezione del villaggio. Prima aizza la tigre contro le guardie di Chiang Kai-shek, e subito dopo contro le guardie rosse che volevano dettar legge. La rivoluzione non è un atto compiuto una volta per tutte, è un percorso in continua evoluzione, è l’eterno avverarsi di un’idea di perfezione tanto irragiungibile quanto auspicabile.
Dario Fo amava la rivoluzione cinese perché era una rivoluzione contadina e quel mondo contadino portava con sé tutta la ricchezza poetica, magica e affabulatoria nella quale trovava le radici profonde del suo teatro. Quando nel 1969 portò sulle scene la sua Giullarata popolare, poi Mistero buffo, scoprimmo un mondo sconosciuto, un universo letterario ignorato dai libri di scuola. Dietro quell’opera c’era un poderoso lavoro di studi storici e filologici.
Dario Fo ci raccontò il medio evo con tutti i colori di quei fermenti culturali lontanissimi dalla vulgata dei secoli bui, dell’oscurantismo e del sonno della ragione. Ci fece conoscere personaggi straordinari come Fra’ Dolcino e battaglie memorabili come quella del Castellazzo di Bologna dove i nobili asserragliati furono bombardati dal popolo con tonnellate di escrementi.
Restituì dignità storica ai guitti, ai giullari, ai cantastorie. Ne studiò la straordinaria potenza narrativa, la prorompente tensione poetica. Ci rivelò, con Franca Rame compagna e mater dolorosa, la vena tragica di quelle narrazioni da strada, dove al lume delle fiaccole il popolo “straccione” assisteva alla trasposizione fantastica della propria storia.
Dario Fo conferì nobiltà allo sghignazzo, allo sberleffo di un popolo schiavo che si prende gioco del potere come Cristo quando assesta una poderosa pedata sulle terga di Bonifacio VIII. Ed è proprio Cristo ad incarnare più di tutto la pulsione rivoluzionaria e liberatoria del popolo. Un Cristo tutt’altro che ieratico ed evanescente, piuttosto carnale e sanguigno, che si ubriaca mutando l’acqua in vino e fa ubriacare pure sua madre; che non si risparmia accessi d’ira; che dà spettacolo resuscitando morti e restituendo la vista ai ciechi che però si lamentano perché con l’infermità hanno perso anche la loro unica fonte di reddito.
Il teatro dei giullari è continuamente percorso da questo misticismo frontale, diretto, carnascialesco. Un teatro che non potrà mai essere cinema perché incontro di corpi, sacrificio, come un atto liturgico non è né può essere mediato dal buio di una sala o dalla luce algida di uno schermo. Il teatro si nutre di carne e gli spettatori sono gli apostoli riuniti per l’ultima cena. L’altro teatro, quello delle commedie, è più didascalico: la risata è il grimaldello per aprire il cervello e rivelare i paradossi della realtà. Legate indissolubilmente al tempo storico molte commedie di Fo sarebbero oggi incomprensibili ai più: Il Fanfani rapito – Fanfani chi? – Sai quel democristiano…- Democristiano? Che roba è. Morte accidentale di un anarchico – Pinelli, Pinelli, chi era costui. E non a caso l’accademia di Svezia gli conferì il Nobel proprio per quel lavoro storico che culminò nelle giullarate di Mistero buffo.
“Trasformare la realtà in paradosso”, più o meno così diceva Fo in una delle sue ultime interviste quasi come in un manifesto postumo della sua opera. Una realtà talmente ingombrante e pesante da doverla tener d’occhio con circospezione, studiarla con attenzione, maneggiarla con cautela, acchiapparla infine per impiastricciarle il volto di biacca e farla volare sulle ali di carta della leggerezza.
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