Se dietro il disastro di Chernobyl ci fosse un picchio russo?
In sala dal 7 aprile, per I Wonder Pictures, il film dell’esordiente Chad Gracia dedicato al disastro nucleare di 30 anni fa. Un viaggio alla ricerca della verità, attraverso la storia dell’Urss, i “fantasmi”della Guerra fredda e di quell’antenna misteriosa il cui segnale somigliava al lavoro del picchio nella foresta…
A volte le più angoscianti fantasie si concretizzano in un luogo ed in un tempo imprevedibili. Così la zona rossa di Chernobyl assomiglia in modo impressionante alla “Zona” immaginata da Tarkovskij nel suo Stalker. Solo che la Zona di Stalker è un luogo dell’anima dove si avverano i desideri più profondi e insospettati: un luogo dove tutto deve ancora succedere.
A Chernobyl invece tutto è già successo e ad essersi avverati sono i peggiori incubi che la civiltà tecnologica ha fino ad ora prodotto. Ma Fedor Alexandrovich, che nel film interpreta se stesso, non si rassegna all’idea che la sua vita sia stata profondamente segnata da un evento le cui cause sono ancora oggi avvolte nel mistero.
“Dobbiamo capire i fantasmi – dice in una intervista a Daniel Shindel – e i fantasmi possono essere compresi soltanto attraverso i sogni”.
Fedor Alexandrovich è un giovane artista ucraino che all’epoca del disastro, il 26 aprile del 1986, aveva quattro anni e viveva nelle vicinanze della centrale nucleare. Nelle sue ossa furono trovati isotopi radioattivi, fu evacuato, come tutti, e fu costretto a passare un periodo di “convalescenza” in un orfanotrofio.
Il film, Il complotto di Chernobyl-The Russian Woodpecker, opera prima di un bravissimo Chad Gracia, è la storia della sua ricerca della verità, del ritorno ai luoghi d’infanzia, dentro la zona proibita avvolta dalle radiazioni, sullo sfondo della lacerante crisi politica ucraina.
Durante la guerra fredda, alla fine degli anni Settanta, il governo nordamericano captò uno strano segnale proveniente dall’Unione Sovietica. Il segnale aveva una successione ritmica che ricordava il lavoro del picchio nella foresta e dunque fu chiamato “Il picchio russo”. Varie congetture furono fatte per spiegare quel suono, alcune delle quali decisamente fantasiose, come quella che vede un tentativo sovietico di trasformare in zombie gli americani.
L’antenna che produceva quel segnale era istallata nelle vicinanza della centrale nucleare di Chernobyl, e ciò che si domanda Fedor Alexandrovich è se non ci fosse per caso una relazione fra il disastro nucleare e la presenza dell’istallazione militare.
Il viaggio dell’artista nel cuore della zona contaminata è un memorabile e struggente percorso all’indietro nei luoghi della sua prima infanzia, negli edifici abbandonati, nei luna park arrugginiti. In compagnia del direttore della fotografia Artem Ryzhycov il regista ci conduce in uno dei luoghi più inquietanti del mondo. Fedor affronta il viaggio alternando performance artistiche, che assomigliano a rituali dionisiaci, a momenti più riflessivi.
Straordinaria la visita in una scuola il cui pavimento è ricoperto di maschere antigas. Fedor indossa una tuta trasparente di plastica sul corpo nudo e cammina o danza con una torcia fra le mani calpestando le maschere che si deformano sotto il suo peso. L’ambientazione ricorda moltissimo l’inquietante istallazione Shalechet, di Menashe Kadishman, al Jewish Museum di Berlino (nella foto di Igor Pulcini).
La storia rincorre i fantasmi del passato, e il passato dell’Ucraina è l’Impero Sovietico. Potenti burocrati, burberi generali, inquietanti commissari politici, vivono quasi in povertà dentro misere stamberghe. Ciò nonostante conservano l’antico senso del dovere: ricevettero l’ordine di non parlare della Duga, la gigantesca antenna, e non ne parlano.
Tuttavia Fedor riesce in qualche modo a infiltrarsi nelle crepe del muro di omertà scoprendo che il sistema Duga non aveva mai funzionato veramente. L’antenna, un immenso radar, inviava i segnali facendoli rimbalzare sulla ionosfera, ma quando sopra il circolo polare artico si produsse un’aurora boreale il sistema andò in crisi e fu chiaro che non fosse affidabile. La seducente Fata Verde aveva fermato il colosso Russo.
Dunque appare il possibile movente di un disastro provocato ad hoc con un esperimento organizzato nella centrale per provocare la fusione del reattore. La contaminazione di tutta la zona avrebbe evitato l’accertamento da parte di una commissione scientifica del fallimento della Duga, con inevitabili gravi conseguenze, perfino la pena di morte, per gli ideatori del sistema.
L’inchiesta di Fedor non passa inosservata, la sua famiglia è minacciata, il direttore della fotografia viene ferito da un cecchino e due amici che erano con lui vengono uccisi. Il gruppo sembra sfaldarsi irrimediabilmente con accuse di tradimento reciproche, Fedor arriva a sospettare che il regista Chad Gracia sia un agente della Cia.
In breve però tutto si ricompone e una ipotesi compatibile con gli eventi narrati, anche se non provata da documenti, viene comunque trovata. In realtà il regista è sempre stato scettico sulle congetture di Fedor Alexandrovich , e il film è soprattutto la narrazione del viaggio interiore di un artista inquieto, sempre in bilico sull’orlo dell’abisso.
La sua prorompente ossessione creativa ci porta dentro un universo parallelo, dove la realtà è soltanto il fondale di una costante rappresentazione. L’artista che si arrampica sulla gigantesca antenna è l’emblema fisico di questa rappresentazione. Così come la torre di Tatlin, pur non essendo mai stata costruita, fu il simbolo del Costruttivismo russo, l’immenso wireframe della Duga è il suo esatto opposto, il simbolo del disfacimento di un Impero.
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