Elio Petri, l’unica tv possibile è con Jean-Paul Sartre. “Le mani sporche”, che la Rai lo riscopra
È l’unico sceneggiato (oggi diciamo serie tv) firmato da Elio Petri, “Le mani sporche” (1978) dall’omonimo dramma teatrale (1948) di Jean-Paul Sartre. Tradotta dallo stesso regista l’opera parla al presente di Petri attraverso il passato in cui Sartre la scrisse. L’esistenzialismo sartriano, del resto, ispira molti temi chiave nella produzione di Petri, tra cui il concetto di “malafede” che grava sugli individui, le loro scelte e centrale in questo testo. Una bella analisi di Emanuele Bucci (per Framed Magazine) e un appello alla Rai per riscoprire questo gioiello introvabile …
Il 29 gennaio di novantadue anni fa nasceva a Roma Elio Petri, scomparso (davvero troppo presto) nel 1982. Senza dubbio uno dei registi più validi del nostro secondo Novecento, per quanto a lungo sottovalutato e persino ostracizzato, anche e soprattutto per la rischiosa scommessa della sua filmografia: far incontrare una polemica sociopolitica radicale con i codici dello spettacolo di massa e dei suoi generi, senza rinunciare alla sperimentazione formale e alla riconoscibilità dello stile. Un intellettuale (anche se lui non si definiva tale) ostile ai conformismi (compresi quelli della sinistra cui pur afferiva), solo tardivamente e ancora parzialmente riscoperto come merita.
Oggi lo ricordiamo con una delle sue opere meno note: Le mani sporche, unico sceneggiato – oggi diremmo miniserie – del regista, adattamento in tre puntate del dramma teatrale omonimo (1948) di Jean-Paul Sartre, in una traduzione dello stesso Petri. Con l’occasione vorremmo lanciare un pur simbolico appello alla Rai, che ha prodotto (merito dell’illuminato responsabile di allora, Paolo Valmarana) e trasmesso gli episodi originariamente sul primo canale il 14, 15 e 19 novembre 1978. Sarebbe bello se il servizio pubblico riesumasse, tanto più nell’odierna fase di desertificazione culturale, questo gioiello introvabile che, tra le altre cose, vanta le musiche del compianto maestro Ennio Morricone e una delle più belle interpretazioni per lo schermo (piccolo e grande) di un mostro sacro come Marcello Mastroianni.
Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, nell’immaginario stato europeo dell’Illiria (già alleato della Germania nazista), il Partito Proletario clandestino è diviso sulla linea da adottare. Alcuni, come il giovane Hugo (Giovanni Visentin) vorrebbero approfittare dell’imminente invasione sovietica per instaurare anche lì un regime comunista. Ma il più anziano leader Hoederer (Marcello Mastroianni), valuta un compromesso con le forze borghesi e conservatrici per gestire col minor numero di perdite possibile la transizione verso la fine della guerra e la ricostruzione politico-economica. L’ala “rivoluzionaria” incarica perciò Hugo di introdursi in casa di Hoederer come suo segretario, per spiarlo e ucciderlo prima che questi realizzi l’alleanza.
A raccontare la vicenda a posteriori è lo stesso Hugo, che ha effettivamente ucciso Hoederer, ma non è chiaro il vero motivo per cui l’abbia fatto. A complicare la vicenda, infatti, c’è anche un triangolo erotico (dalle fortissime connotazioni edipiche) venutosi a creare nel periodo della convivenza tra Hoederer, il suo futuro assassino Hugo e la moglie di questo, Jessica (Giuliana De Sio). Hugo, per giunta, ha a sua volta una relazione con la compagna di partito Olga (Anna Maria Gherardi), che dovrà giudicare se il giovane, nell’eseguire la missione, abbia tradito la causa o meno. Come sempre, in Petri la dimensione sessuale è il luogo-chiave dove emergono contraddizioni e fragilità dei personaggi, condannati ad essere scissi e irrisolti in una società dove l’alienazione prodotta dalle gerarchie di classe non consente il pieno sviluppo delle persone.
Ma per il regista adattare Sartre vuol dire confrontarsi con uno dei pensatori più importanti per la sua formazione intellettuale. L’esistenzialismo sartriano ispira infatti molti temi chiave nella produzione del regista romano, dall’incombere costante della morte al concetto di “malafede” che grava sugli individui e le loro scelte. Quest’ultimo è il nodo chiave de Le mani sporche, come lo stesso Petri spiega nel saggio omonimo redatto per il press-book Rai, dove approfondisce la sua interpretazione del testo di Sartre. Secondo quest’ultimo, la malafede è il tarlo permanente di ogni coscienza, nel suo tentativo di «fuggire ciò che non si può fuggire», ovvero «fuggire ciò che si è». È questo tarlo che accomuna Hugo e Hoederer al di là delle ragioni contrapposte di entrambi: essi, scrive Petri sono «simili nella malafede».
Da un lato, infatti, il giovane Hugo, apparentemente coerente nel suo estremismo, rivela la sua natura di borghese nichilista, disposto a sacrificare un numero cospicuo di vite umane, e a diventare lui stesso un assassino, nel nome di un’astratta purezza ideale. «Ma lo vedi che non li ami, gli uomini? Tu ami solo i princìpi!», grida Hoederer a Hugo all’apice del loro confronto. E «senza amare gli uomini», aggiunge, «tu non ti puoi battere per loro!». “Sporcandosi le mani” con un più realistico compromesso, Hoederer si rivela paradossalmente più “puro” dell’altro nel perseguire la medesima causa. Ma anche Hoederer è in “malafede”, ossessionato com’è dall’idea della sua stessa morte (cui si espone col tentativo di alleanza), che vanificherebbe i suoi piani e nondimeno sembra attirarlo in un ambiguo cupio dissolvi.
Com’è evidente, allora, la trasposizione di Petri riflette (anche) sulle contraddizioni interne allo schieramento politico di sinistra (in particolare comunista) in un momento drammatico della sua storia, gli anni Quaranta attraversati dalla guerra e dominati dallo stalinismo. Ma il clima di diffidenza reciproca e il ricorso all’omicidio come strumento di lotta riporta alla stessa epoca in cui è realizzato l’adattamento, quel 1978 tragicamente emblematico degli Anni di Piombo, col sequestro e l’omicidio Moro eseguito dalle Brigate Rosse.
Petri è tutt’altro che un moderato, e anzi col suo precedente film Todo modo (1976) aveva espresso una critica talmente feroce al sistema di potere retto dalla Democrazia Cristiana da mettere in imbarazzo anche molti esponenti del PCI allora fautori del famigerato “compromesso storico”. E però non lesina critiche alla sua stessa parte politica quando rinnega i propri valori abbracciando modelli autoritari come quello sovietico o cedendo all’uso della violenza.
Le mani sporche, allora, parla al presente di Petri attraverso il passato in cui Sartre scrisse l’opera. L’intenzione allegorica del regista è ben dimostrata dall’inserto più visionario della trasposizione. Petri, infatti, costruisce intorno alla vicenda una suggestiva cornice meta-filmica, ambientata in una sala teatrale dove siede una sinistra figura che somiglia a Josif Stalin: è lui, nella storia della sinistra, il “fantasma” più ingombrante, la cui ombra sembra ancora riverberarsi nei tardi anni Settanta da cui ci parla il regista.
Il rapporto di Petri col piccolo schermo è complesso, e viene indagato dall’autore stesso proprio nel saggio su Le mani sporche. Il regista denuncia i rischi di imbarbarimento socioculturale e impoverimento esistenziale che un cattivo uso della tv (o l’uso della tv in una cattiva società) può comportare. Aspetto chiave (e attuale nell’era Covid) di tale critica è il potere della tv di “sostituirsi” all’evento vissuto in presenza: un film, ma anche una partita di calcio o una messa, non vengono vissuti dal telespettatore nei relativi luoghi di aggregazione sociale in cui recarsi attivamente, ma fruiti più passivamente e distrattamente da casa, spezzando in ogni momento l’integrità e continuità dell’evento grazie al telecomando. Una critica che sarà sviluppata nel successivo lungometraggio del regista, l’ultimo che fa in tempo a realizzare, Buone notizie (1979).
Eppure, come Hoederer nell’affresco sartriano, Petri sceglie di “sporcarsi le mani”, realizzando una produzione per il medium che pur contesta duramente. Il motivo dichiarato di tale contraddizione, oltre alla possibilità di fare della positiva divulgazione culturale attraverso uno strumento così potente e diffuso, è analogo a quello che aveva portato Petri a cercare il compromesso con la grande (e capitalistica) industria cinematografica: scardinare dall’interno le convenzioni del mezzo stesso.
Dal punto di vista stilistico, infatti, Le mani sporche è solo apparentemente un prodotto televisivo tradizionale. I codici dello spettacolo teatrale influiscono a tal punto, e in modo così anomalo, su quelli della tv da far pensare piuttosto a un «teatro-da-televisione», come l’ha definito il regista. Oltre alla cornice di cui si è detto, drammaturgia e rappresentazione risultano sottilmente e costantemente artefatte: dalla platealità dei colpi di scena alla recitazione degli attori, tutto denuncia implicitamente la “teatralità”, la natura di messa in scena di quanto stiamo vedendo.
Ciò è coerente con la riflessione sartriana (e petriana) sulla “malafede”, per cui ogni personaggio sembra suo malgrado prigioniero di un “ruolo” che non può seguire fino in fondo. Ma è anche un modo intelligente del regista di mettere in discussione dall’interno i meccanismi del mezzo televisivo, a partire dall’impressione di realtà e verosimiglianza del mondo che esso veicola. Il risultato è un’incursione felice e (anche nella contraddizione) coerente del regista nella fiction televisiva. E un esemplare nobile di quest’ultima che sarebbe davvero ora di rivedere e riscoprire.
fonte Framed Magazine
Emanuele Bucci
Libero scrittore, autore del romanzo "I Peccatori" (2015), divulgatore di cinema, letteratura e altra creatività.
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