Fenomenologia della violenza degli uomini. Ghegi e Gassmann a “Mani nude”

In sala dal 5 giugno (per Medusa) “Mani nude”, opera seconda di Mauro Mancini (dopo “Non odiare”) dall’omonimo romanzo di Paola Barbato. Un mondo underground, violento allo spasimo. Un ragazzo, Davide, rapito e trasformato in una macchina da combattimento per un’organizzazione che gestisce i combattimenti clandestini. Un “Fight Club” senza possibilità di redenzione. Francesco Ghegi nei panni del ragazzo ed Alessandro Gassmann in quelli del suo carceriere ..

Partiamo da Protagora. Il principe dei sofisti. Il suo nome è un indizio in questo strano film, opera seconda di Mauro Mancini, che vuol giocare con la natura dell’uomo, per trasformarla e plasmarla. E Protagora, infatti diceva che “L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono, e di quelle che non sono per ciò che non sono”. Non c’è bene o verità assoluta, se non attraverso la misura dell’uomo.

La prima parte del film, tratto dall’omonimo romanzo di Paola Barbato (Premio Scerbanenco 2008), già sceneggiatrice di Dylan Dog, descrive un mondo underground, violento allo spasimo. Un ragazzo, Davide, viene rapito dopo un rave, imprigionato e trasformato in una macchina da combattimento, proprio come un cane, per ricchi scommettitori in vena di emozioni forti. Solo un lottatore sopravviverà a ogni duello, e Davide (Francesco Ghegi) è bravo, molto più bravo di quel che lui stesso può immaginare.

L’organizzazione che gestisce i combattimenti degli umani bestializzati è una sorta di prigione in un cargo, dotata di palestra per allenamenti. La trasformazione di un ragazzo come tanti in un animale assassino è abbastanza rapida e violenta, sangue e bava e dolore. Davide pensa che soccomberà, poi invece vince, uccide, e vince ancora.

Riesce a farsi un amico, cane combattente come lui, Puma. Lo perderà, com’è ovvio che sia. Non è un mondo a misura di amici né di alcun sentimento.

Non è un mondo a misura di nulla, e potrebbe essere ovunque. I paesaggi sono desolati: una cava, un cementificio, un garage. I luoghi dove si combatte sono saloni doviziosi ma non c’è tempo di guardarli, i colpi, i tranelli, la violenza dei duelli sono inarrestabili e a contorno sono i volti deformati dall’eccitazione degli spettatori che vogliono il sangue e la morte a far da scenario.

Davide non è più Davide, si chiama Batiza. Il suo carceriere è Minuto, la leggenda dice che si chiama così perché un minuto è il tempo in cui sopravviverebbe un suo avversario. Un impassibile Alessandro Gassmann, maestro di combattimento, asciutto di parole e gelido di sentimenti. Per sopravvivere, dice, non devi perdere la testa di fronte alla morte.

Una storia ripugnante, si fermasse qui. Invece cambia il paesaggio, cambiano i personaggi. A scatenare il mutamento è l’ennesimo combattimento impari. Il sangue c’è, ma è quello di Batiza.

La misura di Minuto ha infatti il suo colmo quando l’invincibile Batiza rischia di soccombere. Lo salverà e fuggiranno insieme: Davide rifiuta di tornare a casa, i suoi genitori non lo riconoscerebbero per quel che è diventato dopo mesi di combattimenti estremi, guardando in faccia la morte ogni volta.

Cambia il paesaggio, i due fuggiaschi si rifugiano in un’anonima periferia urbana, case popolari tutte uguali, vialoni sterminati, lavori manuali da portare a termine senza legare con nessuno, occhi bassi e andare. Una vita banale con l’incubo dell’organizzazione, che ha perso due buone fonti di reddito e non si dà per vinta.

Però c’è un legame, una casa comune, il tentativo di ricostruire una vita. Padre e figlio, sembrano, ma a trascinarli indietro sarà il passato, quello che Minuto avrebbe voluto cancellare e da cui non trova riscatto. Quello che Davide ha vissuto da protagonista senza nemmeno saperlo.

Non c’è speranza, in questo film dell’orrore: l’abisso dell’animo umano è profondo e insondabile, e se la speranza lo contrasta, il vento della violenza la strapperà via. A volte si pensa di scegliere una strada, poi è la strada che sceglie per te dove portarti, come trasformarti.

Non c’è giudizio morale: la storia è durissima, sporca e cattiva. Fa male, come un pugno in faccia, la fine della possibilità di un riscatto. L’impossibilità di perdono, d’amore. Se non c’è vita, ci sarà morte.


Ella Baffoni

Giornalista dal 1964. Fin dal 1973 ha lavorato al Manifesto. Nel 2002 è andata all'Unità, al desk del politico. Negli ultimi anni è stata agli esteri e ha collaborato all'online. Insegna italiano a stranieri. Collabora a Strisciarossa. Appassionata lettrice e viaggiatrice, ha due figlie. È comunista.

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