I sommersi del mondo del pallone. “Tigers” la delusione di chi non ce l’ha fatta arriva in sala
“Tigers” di Ronnie Sondahl arriva in sala dal 22 luglio (per Adler Entertainment). A partire dai diari di Martin Bengtsson, giovane talento del calcio che finisce al collasso mentale a causa dei feroci meccanismi del professionismo. Il film, però, non riesce a coinvolgere il pubblico. Come, invece, ben fa il documentario su Totti di Alex Infascelli, mentre si moltiplicano le serie tv sul “non visto” del calcio. Passato in “coproduzione” alla Festa del Cinema di Roma con Alice nella città …
Un film può dirsi mal riuscito quando dopo la sua scena più tragica in sala qualcuno non riesce a trattenere le risate. Accade perché lo scollamento è tale tra le vicende narrate e quel che arriva allo spettatore che persino un evento drammatico viene svuotato di tutto il suo peso e sfiora, sfortunatamente, il ridicolo. È quel che è successo nella sala dell’Auditorium di Roma durante la proiezione di Tigers, diretto dallo svedese Ronnie Sandahl (già sceneggiatore di Borg McEnroe) e presentato alla Festa del Cinema in coproduzione con Alice nella città.
Il film è la storia di un ragazzetto di sedici anni, Martin Bengtsson, enfant prodige del pallone, che viene catapultato a Milano dopo essere stato acquistato per una somma considerevole dall’Inter. Scaraventato da solo in una realtà completamente nuova, con dei compagni di squadra tendenti al bullismo, si ritrova a gestire il peso di dover dimostrare di essere già pronto per la Serie A, peraltro senza capire una parola di italiano. Il film è scandito dalle stagioni, annunciate su schermo nero, partendo dalla primavera (che, casualità, coincide anche con il suo approdo nella Primavera dell’Inter) in una parabola discendente che lo porterà direttamente a lasciare tutto in inverno.
Tratto da I skuggan av San Siro (All’ombra di San Siro, inedito in Italia), raccolta dei diari scritti da Bengtsson durante l’esperienza in nerazzurro, il lavoro di Sondahl si chiude con primi piani ossessivi del volto del suo protagonista (Erik Enge); per poi svilupparsi in episodi prevedibili e svuotati di ogni emotività, come le tigri che danno il titolo al film, metafora della vita in gabbia del calciatore e della modella di cui si innamorerà. Il senso di smarrimento del ragazzo non emerge mai dalle immagini, ma va anzi sempre desunto dalle cose che gli accadono, il che non può che portare a quello scollamento tra film e spettatore di cui già si è detto.
Negli ultimi anni l’attenzione di film e serie televisive verso il “non visto” del calcio è cresciuta notevolmente e non sorprende. Con l’avvento dei social network sono stati i calciatori stessi a portare per la prima volta i tifosi nella loro quotidianità di atleti. L’industria ha fiutato l’affare e la carica di questo strano voyeurismo calcistico, negli ultimi anni, ha aperto definitivamente le porte degli spogliatoi. Amazon, solo per citare il caso più eclatante, ha prodotto serie di grande successo che hanno portato le telecamere negli spogliatoi di due club di prima fascia, il Manchester City e il Tottenham, allenati da due dei migliori nomi degli ultimi anni: Pep Guardiola e José Mourinho. Ma produzioni di questo tenore sono in continuo aumento, anche in Italia, come il recente Il campione di Leonardo D’Agostini.
A questa lunga lista si aggiungerà presto la serie tratta dall’autobiografia di Francesco Totti, che intanto però è stato protagonista proprio alla Festa della sua Roma con il documentario Mi chiamo Francesco Totti, diretto da Alex Infascelli. Se messo a confronto con Tigers, il racconto della carriera dell’ex capitano della Roma accresce il suo senso di eccezionalità. Lo scopo del film di Sandahl è quello di riportare alla luce quel novanta percento di giovani promesse che non sono riuscite a sbocciare, la storia di Totti è invece quella di una persona semplice che non solo ce l’ha fatta, ma ha dedicato la sua vita sportiva a una squadra, sposandone in primis le rinunce.
Su un altro punto, però, i due lavori coincidono: la critica al sistema calcio, immenso mercato di esseri umani valutati come fossero macchine. Nel caso di Bengtsson la critica è esplicita e nonostante il film non sia in grado di restituire quel disagio, non c’è dubbio che la questione di fondo sia la mancata tutela del benessere mentale dei calciatori, del loro essere persone prima che atleti.
Nel caso di Totti tutto questo è più sottile, più romantico e, specie a Roma (ma soprattutto specie per chi scrive), più emozionante. La decisione di restare a Roma, nella squadra per cui ha sempre tifato, nel club in cui è cresciuto, nella sua città, è in fin dei conti la decisione che trofei e soldi valgano meno del fattore umano che una carriera di venticinque anni con la Roma può donare.
Totti e Bengtsson sono la metafora delle due facce del sogno: il compimento totale o l’incubo inatteso. Ma se il doc di Infascelli non ha bisogno di un confronto con un altro film per poter sviluppare un discorso, lo stesso sfortunatamente non si può dire per Tigers.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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