“Il confine” su Raiuno. Troppe storie e poca Storia

Su Raiuno il 15 e 16 maggio, in prima serata, la miniserie “Il confine” di Carlo Carlei, dedicata al centenario della fine della Grande Guerra. Quattro ore di spettacolo dal respiro corto in cui la scelta di seguire i “grandi eventi” attraverso le “piccole vicende” dei protagonisti non riesce a far decollare il racconto. Sacrificando soprattutto la grande Storia …

Si fa presto a dire confine. Già, ma di che tipo? C’è un confine temporale: un prima e un dopo. C’è quello di spazio: da una parte o dall’altra. Confine è una linea di separazione che può essere una data semplicemente cerchiata su un calendario ma anche entrare nei libri di storia e marcare epoche, sconvolgimenti; identificarsi sul terreno con segno di un gesso, oppure con una sbarra, col filo spinato.

Confine è prima e dopo una ghigliottina. Ci sono confini di etnie, di religioni, di status sociali, di credo politico, di nazionalità e chi più ne ha più ne metta: noi e loro, amici e nemici. C’è l’estremo confine, fra la vita e la morte.

Un argomento affascinante, quello del confine, dei confini. Ma anche un guazzabuglio di significati, una matassa difficile da dipanare, un labirinto nel quale è facilissimo perdersi.

Ecco allora, “venghino signori”, attingete a piene mani dal breve campionario sopra descritto, agitate con grande maestria, aggiungete buone intenzioni e buoni sentimenti, sventolate bandiere tipo Dio Patria e Famiglia, e preparatevi a godervi – se non avete la puzza sotto il naso – due belle seratone su Raiuno, 15 e 16 maggio (ore 21) con la miniserie intitolata, appunto, Il confine, regia di Carlo Carlei su soggetto di Laura Ippoliti e sceneggiatura di Laura Ippoliti e Andrea Purgatori oltre che dello stesso Carlei.

Carlei è un regista di vasta esperienza, che fra l’altro ha firmato fiction di successo su Padre Pio, Enzo Ferrari, sul generale Della Rovere. Purgatori e Ippoliti le sceneggiature le sanno scrivere, eccome. Rai fiction e Pay per moon, i produttori, non hanno risparmiato risorse: per dire nelle scene di massa della guerra operano 1600 comparse. I costumi sono belli, le divise militari ricostruite con filologica pignoleria. Gli attori, dai quattro interpreti principali di cui parleremo fino a quelli diciamo minori ma tutti importanti nell’economia del racconto, sono bravi, in certi casi bravissimi. Insomma, tutto sembra andare per il meglio. Però…

Però alla fine l’impressione è quella di un’occasione almeno parzialmente sprecata. Realizzato per commemorare i 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale, ce lo saremmo aspettato come un grande affresco, con quasi 4 ore complessive di spettacolo, del perché e del percome del grande massacro che segnò la fine della Bella Epoque e l’inizio del tragico “Secolo breve” chiuso nell’89 con la caduta del muro di Berlino.

Invece questa dimensione, questo respiro è decisamente corto, e la scelta di seguire i “grandi eventi” attraverso le “piccole vicende” dei personaggi chiave non riesce a far decollare il racconto. È vero, non era facile avventurarsi in un campo minato-animato dai fantasmi di giganti come Orizzonti di gloria o La grande guerra. Ma visto che la prova è stata fatta, è difficile andare oltre una discreta sufficienza. Senza eccellenze come pure era lecito aspettarsi. Ma procediamo con ordine.

Siamo a Trieste, città di confine geo-politico per eccellenza allora parte del grande impero austro-ungarico, ma attraversata da fremiti irredentisti filo italiani. Siamo infatti nel 1914, alla vigilia dello scoppio del conflitto. E i nostri eroi sono alle prese con l’esame di maturità, una sfida non solo scolastica, una soglia che segna il confine fra giovinezza ed età adulta.

C’è un primo lui, Franz Von Helfert (Alan Cappelli Goetz) alto bello, biondo, aristocratico di buone maniere e buoni sentimenti che deve reprimere ambizioni artistiche in quanto figlio di aristocratico ufficiale austriaco scolpito nel legno nel fisico e nei sentimenti, per seguire gli alti destini del casato, con tanto di palazzo-castello avito dagli infiniti saloni e con fedele scultorea servitù.

Poi c’è una lei, Emma Cattonar (Caterina Shulha) bellissima, dolcissima, biondissima, tenerissima, elegantissima, figlia di un ricco commerciante di tessuti (ahinoi !) ebreo. Emma e Franz si amano. Ma anche il secondo lui, Bruno Furian (Filippo Scicchitano) ama Emma ma, essendo amico di Franz, si macera in silenzio, non entra in competizione essendo lui per di più figlio di un modesto caposquadra del porto, sfigato piuttosto che no anche nel vestito con giacca marrone mentre il Von Helfer, manco a dirlo, è vestito di bianco come l’eterea Emma. (Secondo la tipizzazione del Cuore di De Amicis, verrebbe da dire che Franz è Enrico e Bruno è Garrone) .

Un triangolo dunque. Ma senza nemmeno un pizzico di piccante, niente Jules e Jim, calma piatta sul fronte ormonale nonostante i 18 anni, solo buoni sentimenti casti e castamente espressi, che nemmeno in parrocchia negli anni cinquanta!

Sui nostri tre amici (quattro contando Ruggero, il fratello di Bruno, Alessandro Sperduti, irredentista destinato a finire sulla forca – il muratorino della situazione continuando con Cuore – con le trucide modalità illustrate dalle foto scattate in occasione della esecuzione del nostro martire irredentista Cesare Battisti, disertore e traditore però dal punto di vista degli austriaci) scoppia la bufera della guerra, con tutte le tragedie, le atrocità, gli eroismi del grande immenso mattatoio che fu il conflitto del 14/18.

E da qui le piccole vicende personali e la grande storia si intrecciano, con le prime però che giganteggiano e attirano tutta l’attenzione dello spettatore sovrastando e quasi annullando le altre: amore, tradimento, fuga, malintesi, sacrifici, addii e riconciliazioni, assieme al sangue, alle lacrime, al fango delle trincee – spesso quelle originali dell’epoca che ancora si possono vedere sul fronte delle Dolomiti dove quelle pagine furono scritte e dove meritoriamente molte sequenze sono state girate – che fanno da sfondo.

Di queste tragiche pagine i nostri tre eroi saranno vittime e protagonisti, inseguendo fino alla fine i loro destini ognuno nella propria divisa: Bruno quella italiana – scelta con una perigliosa fuga abbandonando l’esercito austriaco – Franz quella della sua stirpe, Emma quella di crocerossina.

Ma perché scoppiò quella guerra? Fu un episodio isolato l’assassinio a Sarajevo del Granduca ad opera di un irredentista serbo? Perché l’Italia entrò in guerra solo il 24 maggio del ’15 con un anno di ritardo? Perché abbandonò l’alleanza con Germania ed Austria per passare sul fronte di Francia, Inghilterra e Russia? Che successe in Italia in quell’anno sospeso? Quali forze, neutraliste e interventiste, si confrontarono? Che ruolo giocò casa Savoia? In che condizioni l’esercito italiano affrontò lo scontro armato? Perché non era pronto come ammette il generale Cadorna (Massimo Popolizio) con Salandra? Eccetera eccetera.

Ecco allora il perché della non piena soddisfazione. Una miniserie deve ovviamente scorrere bene, si rivolge in prima serata al grande pubblico della rete ammiraglia. Ma quel pubblico che ha tributato grandi successi ai classici della musica, del teatro, della danza, dei documentari storico-artistici, al di là di ogni previsione, non meritava il rispetto almeno di una qualche nozione storica di base? Era proprio impossibile inserire nella sceneggiatura qualche finestrella che illuminasse le storie con un po’ di Storia?