Il grande burattinaio. Sul carro di papà Garrel e figli, un luminoso ritratto di famiglia
In sala dal 14 settembre (per Altre storie con Minerva Pictures) “Il grande carro” di Philippe Garrel vincitore dell’Orso d’Argento alla Berlinale. Un delizioso ritratto di famiglia, in questo caso di artisti, in cui il prolifico regista francese coinvolge i tre figli Louis, Lena ed Esther, in una storia di teatro di burattini. Condotto da una voce fuori campo, è un film che parla d’Arte & Amore – inizio, fine e nuovo inizio – con quella grazia che aveva Eric Rohmer…
È un delizioso ritratto di famiglia quello che al prolifico regista e attore francese Philippe Garrel (più di 28 film dal 1966) ha portato l’Orso d’Argento per la miglior regia nel 2023 per Il grande carro.
Grande, come la costellazione, per raccontare e reggere il peso e la bellezza di una famiglia, nel suo caso di artisti, che ha fatto interpretare ai suoi tre figli: Louis, Lena ed Esther, tutti e tre attori da grandi, come era stato suo padre Maurice.
Il Carro è come quello che una volta – epoca fine Ottocento, primo Novecento – portava in giro le famiglie dei teatranti, sempre con figli numerosi (manovalanza molto ambita come quella dei figli dei contadini), svezzati subito sul palco, nei paesi di Francia, come in Italia e immagino altrove, in tour con repertorio di drammi o commedie di teatro.
In questa storia teatro di burattini, ambientato in quest’epoca di cui sono protagonisti: Simon (Aurélien Recoing), il capocomico attore, autore e regista degli spettacoli; i suoi tre figli: Martha, Lena e Louis, orfani molto presto della mamma; la sua di mamma (Francine Bergé), che trasgredendo alla sua, conservatrice, non solo era diventata una burattinaia costumista, ma pure di sinistra. Dunque diseredata ma a quanto pare felice e molto amata dal figlio e dai nipoti.
A questa compagnia si unisce presto Peter Chantelier (Damien Mongin), un giovane pittore squattrinato diventato molto amico di Louis, che viene assunto dal padre che con l’età ha da tempo cominciato a sentire il peso del suo mestiere.
E lo vediamo molto bene il peso di questo mestiere, ripresi dietro le quinte della scena con una mano sempre in alto che regge e muove i loro burattini e le emozioni loro e dei bambini in platea col progredire del racconto.
Condotto da una voce fuori campo, è un film che parla d’Arte & Amore – inizio, fine e nuovo inizio – con quella grazia che aveva Eric Rohmer.
Ma anche di scelte faticose per crescere, diventare adulti, seguendo il proprio desiderio o destino, lasciando il carro protettivo del passato della propria famiglia.
E in qualche modo parla anche di Natura e come può all’improvviso toglierci tutto, se come è ormai evidente, l’abbiamo troppo maltrattata.
Il tutto risparmiandoci sempre imbarazzanti, in quanto non necessarie, scene di sesso o di violenza imposte al cinema da leggi di mercato.
Ho letto che Garrel voleva fare un ritratto dei suoi tre figli e non essendo un pittore li ha dipinti col cinema. Non so se questo sia vero, ma ho l’impressione che questo “dipinto” che ha sceneggiato poi con Jean-Claude Carrière, Arlette Langmann e Caroline Deuras Pleana, sembra uno di quei buoni frutti concimati da spinta autobiografica che la chiusura e il dolore di una tremenda pandemia ha involontariamente prodotto.
Distribuito in Italia da Altre Storie con Minerva Pictures è da vedere. Assolutamente.
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