La danza degli amanti da postare su Facebook
In sala dal 26 gennaio (per 01) “La La Land” di Damien Chazelle, il film che raccoglie 14 nomination agli Oscar eguagliando il record di Titanic ed Eva contro Eva. Un’evocazione del musical come ballo dei fantasmi, ambientato in un “passato contemporaneo”: non è un oggetto retrò ma profondamente radicato nell’oggi, che appaga la società mediatica del 2017, la sua fame di immagini, la sua vacuità disarmante e il suo occhio smanioso di costruzione estetica…
Musica e cinema: c’è un uomo che vuole fare il musicista, una donna che vuole fare l’attrice. Seppure con un radicale mutamento di forma è imperniato sempre sullo stesso plot il terzo film di Damien Chazelle: i suoi protagonisti inseguono un’ambizione artistica e, in virtù della tensione estrema per raggiungerla, affrontano il doloroso dilemma della rinuncia, scelgono cosa lasciarsi dietro.
Così nel precedente Whiplash il giovane batterista Andrew tralasciava naturalmente il rapporto con Nicole, la sua ragazza, fino ad esaurirlo per consunzione preferendo l’appagamento del desiderio, il raggiungimento dell’eccellenza. Se la vetta viene realmente toccata, e cosa accade oltre lo schermo non è dato sapere, su questo resta il dubbio. La La Land potrebbe essere l’espansione del rapporto tra Andrew e Nicole, l’ingrandimento a film di un episodio secondario in Whiplash, il sondare una possibilità lì solo accennata. Al centro un archetipo del melò che ha sempre segnato il cinema hollywoodiano: un sogno è più forte di un amore? Inoltre nel suo esordio, Guy and Madeline on a Park Bench del 2009, Chazelle tratteggiava il personaggio di Guy interpretato da Jason Palmer, nero di Boston, trombettista jazz che cerca di emergere. C’era già l’imporsi come artista che a sua volta pone il problema dell’amore.
Come nucleo tematico Chazelle gira sempre lo stesso film, ma con La La Land lo rende musicale. La svolta di sguardo qui è formale. Cenni di musical erano presenti nelle opere precedenti, certo, ma ora si affronta il genere sfacciatamente e a viso aperto. Tralasciando la ridda di citazioni di cui il film è disseminato, lasciandolo al gioco cinefilo (ne hanno parlato tutti, ognuno si può cimentare), ciò che subito colpisce è la forte discrasia tra il contesto storico e il genere inscenato: Mia e Sebastian si comportano come figure del musical anni ’50, ma intorno a loro affiorano ipad e video su youtube.
Un scelta che – ovviamente – si offre come non casuale ma fortemente voluta: è un “passato contemporaneo” quello allestito da Chazelle, che pur inquadrando gli oggetti ipertecnologici dell’oggi risponde alle regole della vecchia Hollywood, ovvero il sesso non viene contemplato, l’erotismo è sempre fuori campo (all’epoca i dialoghi espliciti erano vietati), il rapporto tra amanti si sostanzia solo nel sentimentalismo esangue.
In questo atto, nel mostrare due innamorati di oggi che danzano come vivendo nel mondo analogico, sta la maggiore sottolineatura del carattere di finzione della messinscena: stai guardando una storia “impossibile” nel 2016, è il suggerimento implicito, il vero cortocircuito è ambientarla lo stesso.
Mia oggi farebbe i selfie e invece balla: come sempre il musical è finzione dichiarata, antica metonimia per indicare il cinema, è tutta una rappresentazione. Non a caso, in una fugace scena chiave che contiene una rivelazione, Mia/Emma Stone sta rientrando a casa e improvvisamente scompare in dissolvenza: una chiusura esteticamente “inutile”, per Chazelle che poteva seguire l’intera camminata della ragazza, ma in realtà imprescindibile per dirci che vediamo una danza di fantasmi, sono gli spettri del musical quelli che si stanno evocando.
D’altronde la trama in sé, per il regista, è sostanzialmente irrilevante: lo chiarisce ancora lui stesso limitandosi a riallestire l’archetipo hollywoodiano (un uomo e donna, l’amore e il successo), un percorso ovvio che procede per tappe simboliche (proprio linguisticamente: c’è Fall, l’autunno, ma anche la caduta) e ribadisce la sua natura strumentale omettendo la rottura, infatti non vediamo Mia e Seb che si separano, la loro lontananza viene offerta come dato di fatto nello spazio di un’ellissi.
Malgrado le soluzioni estetiche e cromatiche, dunque, in realtà il musical si conferma sempre uguale a se stesso: è un ripetersi meccanico dello stesso concetto, la vicenda di un amore che cambia colore ma resta nel territorio del topos. In tal senso la maggiore abilità di Chazelle si rinviene proprio nell’uso della musica: da intendersi non solo come colonna sonora, ma più in generale nel ruolo che l’audio riveste nel film. Questo viene usato strategicamente per sottolineare le oscillazioni nel rapporto tra i due: così la virale City of Stars interviene nell’attimo in cui scatta l’idillio, quando si impenna la temperatura sentimentale scatta la canzone. E così – soprattutto – nella ripresa più struggente la musica si trasforma in rumore, un assordante bip del forno, e quindi decreta la rottura tra amanti.
Ma La La Land, a ben vedere, non è una rappresentazione triste: finisce (quasi) come Café Society di Woody Allen, con gli ex amanti ormai lontani che idealmente si sovrappongono e quindi rientrano in contatto. Qui accade in uno sguardo: il sorriso tra Mia e Sebastian è però ottimista perché, pur certificando il fallimento di un amore, segnala una vicinanza potenzialmente infinita attraverso la musica. Non a caso, sui titoli di coda, riparte la solita canzone d’amore. Il loro romanticismo non è frustrato ma compiuto. E, come in una commedia ottocentesca, i due sorridendo amabilmente si rivolgono a noi e “salutano” il pubblico: ci dicono che la recita è finita.
La La Land che ha fatto il pieno record di nomination (14 !) è il film che vincerà gli Oscar, con cui Chazelle si auto-candida tra i registi americani del futuro. Nel momento in cui i grandi cineasti degli anni Settanta e Ottanta, come Spielberg, Scorsese e Zemeckis, sono attualmente nelle sale e continuano a dominare il cinema popolare americano, egli ambisce a proporsi come adeguato ricambio.
Il suo è un corteggiamento sfacciato allo spettatore, una perenne circumnavigazione della bellezza degli attori, un florilegio di quadri in bella calligrafia che cerca la condivisione su facebook. Sta al musical come The Artist stava al muto, con lo stesso calcolo programmatico, il medesimo studio a tavolino.
Ed è tutto legittimo: è un film facile da amare e/o odiare ma occorre farci i conti, non è un oggetto retrò – come si è detto – ma al contrario profondamente contemporaneo, radicato nella società delle immagini che sfama con intelligenza proprio perché dialoga con la sua superficie. In questo senso è un film “superficiale”: del 2017, del narcisismo, dei social network appaga sia la vacuità disarmante sia l’occhio smanioso di costruzione estetica.
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