Selfie nei lager per i turisti dell’Olocausto

In sala dal 25 gennaio (per Lab 80) “Austerlitz”, il potente documentario dell’ucraino Sergei Loznitsa dalle pagine dell’ultimo libro di W. G. Sebald dedicato all’Olocausto, passato Fuori concorso a Venezia. Una fotografia inquietante del “turismo della memoria”, tra selfie davanti ai forni crematori e indifferenza…

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Il tema non è nuovo, ma non per questo è meno inquietante. Già anni orsono lo scrittore Alessandro Piperno polemizzava a proposito dell'”estetizzante” spettacolo “delle scolaresche sgambettanti sui prati di Auschwitz”. E il regista tedesco Robert Thalheim, nel suo potente Alla fine arrivano i turisti (2007), metteva in guardia sulla “commercializzazione” dei luoghi dell’Olocausto.

Ad aggiungere un nuovo tassello (cinematografico) alla riflessione è ora l’ucraino Sergei Loznitsa, grande narratore di luoghi e città. Ma sempre colte nello svolgersi della Storia, attraverso l’uso straordinario del repertorio. Così è stato per Kiev e la sua piazza Maidan (è il titolo del bellissimo documentario che ha entusismato Cannes 2014) descritta al momento della rivolta popolare contro il presidente Yanukovic nell’ inverno 2014. O per Sarajevo rivisitata, vent’anni dopo l’assedio, attraverso i Riflessi (titolo del suo episodio, il più bello del film collettivo I ponti di Sarajevo) delle lapidi dei “suoi” cecchini. O ancora  le piazze di Mosca ma soprattutto di San Pietroburgo in The Event (passato lo scorso anno proprio qui al Lido) in cui racconta la protesta all’indomani del colpo di stato (il “putsch”) che nell’agosto del 1991 tentò il rovesciamento del governo Gorbaciov e che fu all’origine, pochi mesi più tardi, del collasso dell’Unione Sovietica.

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Il nuovo “luogo” d’indagine per Loznitsa stavolta è Sachsenhausen, campo di concentramento nazista a pochi chilometri da Berlino, a cui arriva attraverso la lettura di Austerlitz, ultimo romanzo del grande scrittore di lingua tedesca W. G. Sebald dedicato all’Olocausto.

Ma stavolta niente repertorio. Solo un rigoroso bianco e nero, ad evocare una memoria sbiadita, e un obiettivo fisso sulla folla dei turisti in visita al campo nel corso di una calda giornata estiva.

Occhiali da sole, carrozzine con bimbi, cappellini, calzoncini corti, zainetti, sorrisi, chiacchiere, gridolini e soprattutto, una raffica di foto. Ragazze immortalate dai fidanzati davanti al cancello d’ingresso al memoriale, sotto la tragica scritta: Arbeit Macht Frei.

Selfie sorridenti di fronte ai forni crematori o ai pali della tortura, che l’obiettivo di Loznitsa, per pudore, non mostra mai apertamente, ma coperti dall’aggrovigliarsi dei corpi dei visitatori. Mentre il “compito” del ricordo è affidato alle guide, svogliate, che snocciolano le cifre dei morti, la sofisticata macchina dello sterminio, la fame, l’orrore a cui i turisti dell’Olocausto “rispondono” mangiando panini e bivaccando appena si offre loro l’occasione.

Impietoso l’obiettivo, attraverso tempi interminabili, riprende gli sguardi, i primi piani, l’indifferenza. Ma senza mai indugiare su nessun dettaglio, su nessun volto in particolare. Fotografando “solo” il passaggio della fiumana di corpi. Dall’ingresso della visita fino all’uscita. E le espressioni non cambiano. L’unico pianto che si ascolta è quello di un neaonato dentro una carrozzina.