La grande bellezza delle operaie di Manziana
L’occupazione di una fabbrica tessile in provincia di Roma che diventò un simbolo. E un libro. È “Le più piccole del ’68”, ora un film di Elena Costa in concorso al BiografilmFest di Bologna…
Sono ragazze di paese, senza una matura coscienza politica o sindacale, senza la memoria di esperienze trascinanti. Non sanno nulla nemmeno di quello che sta avvenendo o preparando, nelle grandi fabbriche italiane o francesi, nei licei e nelle università. Corre l’anno del prepotente 1968. Loro, dai 16 ai 20 anni e poco oltre, lavorano, nella fabbrica tessile di Manziana, un comune a 50 chilometri da Roma. Sono come prigioniere di ritmi massacranti e di paghe da apprendiste. Non hanno ancora imparato a cantare La libertà non viene perché non c’è l’unione. Sfornano ogni giorno 400 paia di pantaloni e 300 giacche, per 400 lire al mese. Nell’estate di quell’anno divenuto famoso, di fronte all’ennesima prepotenza dell’imprenditore padrone, si ribellano, respingono la decisione di portare altrove i macchinari e occupano la fabbrica per 40 giorni. Una vicenda particolare, spesso nascosta dalle cronache dell’epoca, tutte dedicate magari a cogliere i segnali della imminente rivolta operaia tra grandi categorie industriali.
La storia inconsueta di queste giovanissime è ora riscoperta e raccontata prima in un Ebook e poi in un film da Elena Costa. Una duplice operazione sotto il titolo Le più piccole del ’68, in concorso al Biografilm Festival 2015 (Bologna, dal 5 al 15 giugno). È l’ennesimo esempio di come si può lanciare un ponte intelligente tra la carta e la pellicola.
L’autrice, nonché regista, ha cominciato il suo lavoro raccogliendo le testimonianze dell’epoca. Troviamo così le voci di un giornalista accorso tra i primi in quel piccolo Comune laziale. È Carlo Ricchini, inviato da l’Unità a Manziana e divenuto in seguito prezioso caporedattore del giornale. Così come è interessante riascoltare la voce di Marisa Cinciari Rodano, stimata dirigente del Pci, intenta a sostenere quella che era una delle prime epiche battaglie che volevano sottolineare la forza delle donne. La stessa Rodano che perciò organizza, in questa storia, comizi riservati ai fidanzati delle ribelli, tutti intenti a rivendicare un loro “ritorno a casa”. L’elemento determinante del film (e del libro) è dato però dalla scesa in campo, oltre 40 anni dopo, di quelle stesse donne, scovate, intervistate, divenute protagoniste di una memoria avvincente. Non sono più le sedicenni, le ventenni di quei giorni, sono mature signore che hanno mantenuto vivacità e fantasia. Così il racconto di ieri s’intreccia al racconto di oggi, in quelle stesse contrade dove avevano conquistato il beneplacito del parroco venuto a celebrare messa nella fabbrica occupata e poi allontanato dalla curia. (Non c’era ancora Papa Francesco). Un’estate indimenticabile con quegli studenti che venivano da Roma portando poster di Ho Ci Minh a fanciulle che a casa, ricordano, magari avevano solo foto di Kennedy. “Erano tanto carini”, dice una di loro, “ma io sentivo la distanza: eravamo di un’altra classe sociale”.
È il racconto, alla fine, di quella che chiamano una vittoria e, insieme, una sconfitta. Perché il primo settembre del 1968 le “piccole” ribelli riprendono il lavoro. Hanno ottenuto le paghe sindacali e i macchinari non vengono espatriati. Un gioioso epilogo che dura solo un paio di mesi. Poi l’imprenditore padrone riprende le strade della dismissione, per cercare approdi meno onerosi. Eppure queste signore di Manziana oggi non si sentono deluse e amareggiate. Quelle giornate sono servite a renderle più forti, più in grado di gestire le proprie vite, le proprie competenze, le proprie identità. Eccole, nelle ultime sequenze, mentre visitano la loro ex fabbrica diventata un asilo nido. Alcune hanno studiato, altre hanno trovato un lavoro diverso. Semmai riflettono su certe realtà di oggi, sulla sorte dei loro nipoti. Allora in Italia, “c’era un clima che ti appoggiava adesso sembra strano che tu chieda i diritti e passi per una che non le va di lavorare…”. E ancora: “Non c’è Caporetto come nella prima guerra mondiale, ma è come se ci fosse una Caporetto civile…”. C’è infine, in una delle non poche parentesi giocose del film un ballo, senza svenevolezze sgangherate, eseguito dalle ex operaie. Non so perché a me sono tornati in mente altri balli. Quelli, mi si perdoni la licenza, dell’iperpremiata La Grande bellezza. Qui però, tra Le piccole del 68, c’è una “bellezza” grande ma di altro tipo.
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