The Salvation, Il ritorno del western tra cinema e letteratura

In sala il film di Kristian Levring prodotto dalla Zentropa di Von Trier. Una riproposta letterale del genere che riflette sul genere, in linea con la cinematografia danese contemporanea…

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Il western è uno stato mentale. Gli anni Duemila ne sono pieni: ha omaggiato il genere Kevin Costner in Terra di confine (2003), lo ha frequentato Ed Harris in Appaloosa (2008). È la sostanza intima di tutta la letteratura di Cormac McCarthy, in particolare la Trilogia della frontiera, e il più contemporaneo Non è un paese per vecchi, già “coenizzato” nel film omonimo del 2007 che precede Il Grinta del 2010.

C’è della frontiera nei romanzi di Philipp Meyer, scrittore appena esploso e già fondamentale in Usa, con Ruggine americana e Il figlio. E non è forse western il Django Unchained di Tarantino? Guardando a Oriente il totale non cambia, basti pensare a Sukiyaki Western Django di Takashi Miike (2007) o l’ultimo Unforgiven di Lee Sang-il, il remake giapponese de Gli Spietati visto a Venezia 2013. E molto altro. Senza contare l’influenza indiretta, potenzialmente infinita, da Ghost Dog di Jarmusch a Gran Torino di Eastwood, alle tante opere che masticano le forme del western e le reinstallano nel contemporaneo, sotto una maschera le calano nell’oggi.

Per questo non sorprende The Salvation del danese di Kristian Levring, prodotto dalla Zentropa di Lars Von Trier, dall’11 giugno nelle sale italiane per Academy Two. È un western letterale, che riprende i suoi codici in modo filologico: siamo nel 1870, l’immigrato danese Jon (Mads Mikkelsen) incontra sul territorio americano la moglie e il figlio di dieci anni. Quando questi vengono uccisi dall’intervento di criminali su una diligenza, a Jon non resta che la vendetta. Egli elimina il responsabile, che si rivela però il fratello del colonnello Delarue, fuorilegge che terrorizza il villaggio di Black Creek. Così Jon si trova a sua volta nel mirino di una vendetta senza scrupoli. Tutti i marchi del caso sono perlustrati: c’è il bandito sanguinario (Jeffrey Dean Morgan), la donna alla quale gli indiani le hanno tagliato la lingua (Eva Green), la figura più tentata dall’etica (Eric Cantona), lo sceriffo impotente (Jonathan Pryce) e altri di contorno. Rispettando le regole del mito, l’intreccio conosce gradualmente un climax e conduce allo scontro totale e apocalittico, bene contro male, denso di problemi etico-morali, posizioni da prendere, dubbi da sciogliere.

È una rievocazione corretta, epigone di altre maggiori, un gioco che capiamo presto e lontano da vette. Utile soprattutto a verificare il genere e il suo spazio ora, la plausibilità di replicare le sue caratteristiche centrali nella cine-letteratura, tanto usurate quanto riproponibili. Ma The Salvation va letto anche nel percorso di Levring, che fu regista de Il re è vivo (2000), quarta opera del movimento Dogma 95 di Von Trier e Vinterberg. Va letto nel ruolo della Zentropa e della cinematografia danese oggi: cinema che si muove nei generi e consapevolmente ne esaspera le stimmate. Cinema esagerato che lo fa apposta, riflettendo sempre sul senso del racconto: Nymphomaniac di Von Trier è la storia di uno storytelling, Il sospetto di Vinterberg inscena la creazione di un colpevole, dunque una rappresentazione. Second Chance di Susanne Bier è un dramma ingrandito e portato al parossismo: con The Salvation condivide lo sceneggiatore, Anders Thomas Jensen, e allora si spiega anche questo western al cubo.