“La scelta di Anne” il 28 ottobre alla Casa delle donne di Roma. “Un film giusto” secondo Annie Ernaux

«Hai fatto un film giusto». È il commento di Annie Ernaux dopo la visione del film di Audrey Diwan, Leone d’oro a Venezia ispirato, appunto all’omonimo romanzo della scrittrice francese.

Col titolo italiano La Scelta di Anne – L’Événement  il film, nei cinema dal 4 novembre, sarà spunto per una proiezione dibattito il 28 ottobre (ore 18.30) alla Casa Internazionale delle Donne di Roma.

Giusto, intende la Ernaux in una lettera “cioè quanto più possibile vicino a quello che voleva dire per una ragazza scoprirsi incinta negli anni Sessanta, quando la legge vietava e puniva l’aborto”.
E prosegue: “Il film non dimostra, non giudica, né tantomeno drammatizza. Segue Anne nella sua vita e nel suo mondo da studentessa, tra il momento in cui aspetta invano l’arrivo delle mestruazioni, e quello in cui la gravidanza è alle sue spalle, in cui «l’evento» ha avuto luogo. Semplicemente – si fa per dire – è attraverso lo sguardo di Anne, i suoi gesti, il suo modo di comportarsi con gli altri, di camminare, i suoi silenzi, che avvertiamo il cambiamento improvviso prodotto nella sua vita, nel suo corpo che si appesantisce, affamato e scosso dalla nausea. Che entriamo nell’orrore indicibile del tempo che scorre e viene scandito in settimane sullo schermo, lo sgomento e lo sconforto per soluzioni che vengono meno, ma, anche – è molto chiara – la determinazione di andare fino in fondo. E, quando tutto si è concluso, sul volto sereno e luminoso di Anne, in mezzo agli altri studenti, si legge la certezza di un futuro di nuovo aperto.”
Segue con l’apprezzamento per l’interprete: “Non posso immaginare nessuno al posto di Anamaria Vartolomei – aggiunge – per impersonare Anne, e, in un certo senso, me stessa a ventitré anni, con una veridicità e una giustezza che sconvolgono i miei ricordi.
Ma, ai miei occhi, il film non avrebbe potuto essere del tutto giusto se avesse occultato le pratiche alle quali le donne hanno fatto ricorso prima della legge Veil. Audrey Diwan ha il coraggio di mostrarle nella loro realtà brutale, il ferro da calza, la sonda introdotta nell’utero da una «fabbricante di angeli». Perché è solo così, nella sensazione di disturbo suscitata da queste immagini, che possiamo prendere coscienza di quanto è stato inflitto al corpo di quelle donne e di quello che significherebbe tornare indietro.
Vent’anni fa, alla fine del mio libro, scrivevo che quanto mi era successo durante quei tre mesi del 1964 mi sembrava «come un’esperienza totale», del tempo, della morale e del proibito, della legge, «un’esperienza vissuta da un capo all’altro attraverso il corpo». È questo, insomma, che Audrey Diwan ci consente di vedere e di sentire nel suo film.

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