La Storia si addice a Polanski. Il suo j’accuse è un film perfetto

In sala dal 21 novembre (con 01 Distribution), “L’ufficiale e la spia” il nuovo film di Roman Polanski dal thriller storico dello scrittore inglese Robert Harris che ne firma la sceneggiatura. Una rivisitazione dell’Affaire Dreyfus, un errore giudiziario pesantemente determinato dall’antisemitismo imperante nella Terza Repubblica Francese, ma che fu anche uno dei primi casi mediatici di risonanza mondiale, con contrapposizione tra colpevolisti e innocentisti. Con Louis Garrel e Jean Dujardin, straordinari interpreti, il film è un prodotto perfetto ..

Si parte sempre da un’idea. Come quella venuta in mente a Robert Harris. Sentite cosa dice lo scrittore inglese: «L’idea di raccontare nuovamente la storia del caso Dreyfus mi è venuta in mente per la prima volta durante un pranzo a Parigi con Roman Polanski all’inizio del 2012: gli sarò sempre grato per la sua generosità e l’incoraggiamento che mi ha dato» (dai ringraziamenti in coda al libro L’ufficiale e la spia, 2014 Mondadori).

Magari fu qualcosa di più di un’idea e di un incoraggiamento, quasi una «commissione» per un libro, esplicitata dallo strillo pubblicitario sulla copertina dell’edizione italiana e firmato dal regista: «Un thriller appassionante per competenza storica e impatto cinematografico».

Insomma: il film L’Ufficiale e la Spia, di Roman Polanski, in sala dal 21 novembre, sceneggiato dalla coppia Harris – Polanski (avevano già lavorato assieme per L’uomo nell’ombra, 2010), coprodotto da Italia e Francia con Eliseo Cinema (di Luca Barbareschi) e Rai Cinema è il maturo frutto di quell’incontro parigino e di una lunga gestazione, passata attraverso la storia narrata nel libro, un documentatissimo thriller storico.

Perché di mezzo c’è davvero la Storia con la S maiuscola, quella del Caso Dreyfus, dell‘Affaire Dreyfus, torbida e drammatica catena di vicende che portò il Capitano Alfred Dreyfus dall’onore della divisa alla degradazione, alla condanna all’ergastolo da scontare sull’Isola del Diavolo (Caienna) con l’accusa di spionaggio a favore della Germania.

Un Affaire, un errore giudiziario pesantemente determinato dall’antisemitismo imperante nella Terza Repubblica Francese, ma che fu anche uno dei primi casi mediatici di risonanza mondiale e di contrapposizione nell’opinione pubblica, tra colpevolisti e innocentisti tra i quali spiccò l’intervento dello scrittore Émile Zola con il suo celebre editoriale-pamphlet J’Accuse, pubblicato il 13 gennaio 1898 sul giornale socialista l’Aurore.

Il protagonista del film non è però l’ufficiale ebreo Dreyfus (Louis Garrel) ma il suo superiore, il colonnello Marie Georges Picquart (Jean Dujardin) che poche ore dopo la cerimonia di degradazione – è la straordinaria sequenza iniziale del film con lo strappo di gradi e mostrine e l’atto di spezzare la spada del condannato, tra le urla di una folla che lancia insulti contro il traditore ebreo – viene promosso dai suoi superiori a capo dell’Ufficio Statistiche (denominazione di comodo del Servizio Segreto).

In fondo Picquart ha ben lavorato, contribuendo alla segnalazione, tra i sospettati, proprio di Dreyfus, suo ex allievo alla scuola militare. Ma quando il colonnello mette piede nella maleodorante sede del controspionaggio (il puzzo di fogna, le finestre sbarrate, i muri sbreccati: metafore della putrefazione di quell’istituzione che dovrebbe difendere la nazione); quando entra in contatto con il comandante Joseph Henry (Grégory Gadebois) e con la fauna di infidi sottoposti, informatori e periti calligrafi prezzolati; quando ha sotto gli occhi e tocca con mano il documento (un bordereau con le informazioni passate al nemico tedesco) comincia a sospettare che la verità possa essere un’altra.

E che cioè, il traditore non sia Dreyfus e che, anzi, il capitano ebreo sia vittima più che di un’errore giudiziario di un deliberato piano ordito dai vertici militari. La sua coscienza e il suo onore gli faranno mettere da parte i suoi stessi sentimenti antisemiti e lo spingeranno, costi quel che costi (e gli costerà parecchio) alla ricerca della verità.

L’Affaire impegnerà la cronaca e la storia politica della Francia dal 1894 al 1906, un arco di tempo lungo che il libro, e ancora di più il film, attraversano quasi d’un sol fiato, senza cadute di tensione, con dialoghi tesi e battute sprezzanti e affilate come colpi di spada, compresa quella pronunciata da un ufficiale durante la degradazione di Dreyfus: «I romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli diamo gli ebrei. È un progresso, suppongo».

Terribili parole assolutamente vicine al sentimento che si respirava allora in Francia, se è vero che uno scrittore e giornalista come Maurice Barrès, nazionalista e antidreyfusiano, quando il condannato gli passò davanti, prese un appunto che recitava: «Cosa ho da spartire con un tipo così, che avanza verso di noi con l’occhialino sul naso etnico e con l’occhio furioso e secco? Dreyfus non è della mia razza». E se è vero come è vero che ancora a storia conclusa, nel 1908, durante i funerali di Émile Zola, Alfred Dreyfus fu ferito a un braccio da due colpi di pistola sparati contro di lui da un giornalista di estrema destra.

Per l’ebreo Roman Polanski questo film è uno dei suoi punti più alti. La cura delle scenografie, dei costumi, della fotografia; l’efficace ma discreta colonna sonora del grande Alexandre Desplat; le ottime prove di tutti gli attori (c’è pure una parte per Luca Barbareschi, nei panni del marito di Pauline Monnier, interpretata da Emmanuelle Seigner che fa l’amante di Picquart; qualche cammeo celebre e un’apparizione hitchockiana dello stesso Polanski) ne fanno un prodotto perfetto.

Si è detto e scritto che L’Ufficiale e la Spia avrebbe meritato il Leon d’Oro alla Mostra di Venezia, che si è dovuto accontentare del Gran Premio della Giuria (forse un po’ per l’«ostilità» della presidente Lucrecia Martel e a causa degli ostracismi in salsa #Me Too). Ma il film ora è qui ed è assolutamente da non perdere.