“La verità negata”, se l’Olocausto diventa un giallo
Il sala dal 17 novembre (per Cinema) il film di Mick Jackson dal libro dell’americana Deborah Lipstadt. Il racconto dell’incredibile battaglia legale intrapresa dalla scrittrice contro il negazionista David Irving che la citò in giudizio per diffamazione. Passato alla Festa di Roma…
È un film giallo-giudiziario. Tratta di un omicidio, anzi di uno sterminio. Quello che ha preso, nel ‘900, un nome unico: “Olocausto”.
Il titolo del film è Denial, La Negazione. È tratto da un libro, History on Trial: My Day in Court with Holocaust Denier, ovvero “Storia di un processo: La mia giornata in tribunale con un negazionista dell’olocausto”. Il libro uscirà a novembre in Italia con il titolo La verità negata (Mondadori), come il titolo italiano del film, in sala dal 17 novembre (per Cinema di De Paolis).
L’autrice, l’americana Deborah Lipstadt, ha scritto raccontando un’incredibile reale vicenda che l’aveva coinvolta. Nel 1996 è infatti citata in giudizio e processata, insieme alla casa editrice Penguin Books, presso il tribunale di Londra. Il suo accusatore è un presunto storico inglese, David Irving, già autore di diversi libri. Punta il dito contro l’americana Lipstadt colpevole per averlo definito, appunto, un negazionista dell’Olocausto, un “falsificatore”.
Secondo il sistema giudiziario inglese tocca all’imputato dimostrare la propria innocenza. Questo è il nocciolo del film, una co-produzione inglese/americana diretta da Mick Jackson. La Lipstadt (interpretata un ‘ottima Rachel Weisz) è sostenuta da un’equipe di agguerriti legali (Anthony Julius, Alex Jennings, Tom Wilkinson, Harriet Walter) mentre lo storico negazionista David Irving è interpretato da Timoty Spall.
I difensori dell’americana, in questo “processo all’Olocausto”, intendono dimostrare che il negazionista è davvero un mentitore, ha costruito una sua storia legandosi al rifiorire di movimenti neonazisti. Non è però una difesa retorica, tradizionale. Ecco perché l’opera di Mick Jackson acquista uno svolgimento coinvolgente.
Il cuore del film consiste infatti nel confronto tra l’americana autrice e l’anziano legale inglese. La prima vorrebbe prendere la parola, nell’aula del tribunale, insieme ad altre donne già reduci dai campi di sterminio. Invece no. I legali danno alla loro iniziativa un’impronta, come dire, scientifica, basata sulla realtà dei fatti, visti anche nei dettagli.
Il negazionista Irvin aveva scritto che le camere a gas erano un invenzione e che servivano solo per debellare i pidocchi? L’anziano avvocato si fa portare ad Auschwitz. È una scena bella e dolente, con la visione di quegli spazi ora silenti e deserti, in una giornata di neve, con l’avvocato che osserva, prende le misure, indaga sul luogo del delitto e trova le “prove” che quel che Irving aveva scritto erano falsità.
Un metodo che si dispiega su altri aspetti come quelli relativi al fatto che Hitler fosse totalmente estraneo alla liquidazione degli ebrei.
Così si giunge al giudizio finale affidato a un giudice unico. La verità è affermata: l’Olocausto è avvenuto, David Irving è giudicato come un “attivo negatore dell’Olocausto”, antisemita e razzista, nonché “associato con degli estremisti di destra che promuovono il neonazismo”.
Uno storico, dunque, che aveva “per le sue ragioni ideologiche continuativamente e deliberatamente manipolato e alterato l’evidenza storica”. Irving aveva speso forti somme per lanciare la sua sfida legale e ora dovrà dichiarare bancarotta.
C’è anche un seguito, non raccontato dal film: David Irving è arrestato in Austria l’11 novembre 2005 mentre il 20 febbraio 2006 è riconosciuto colpevole da un tribunale per “aver glorificato ed essersi identificato con il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi”. È così condannato a tre anni di reclusione. Anche se poi è scarcerato dopo 400 giorni, in seguito a una sentenza della Corte d’Appello. Il carcere a quanto pare lo convince a una marcia indietro. Eccolo in una intervista a Il giornale dichiarare di essere “arrivato alla conclusione che l’Olocausto c’è stato”. Lo ha scoperto, spiega, leggendo i diari di Goebbels e il dossier Kurt Aumeier (vice comandante di Auschwitz)…
Un film, una storia di grande interesse che investe anche un dibattito aperto in Europa e negli Usa. Con la presenza di chi ha sostenuto e sostiene che ci sarebbe di mezzo il diritto alla libertà di parola e di pensiero. Anche a proposito di una tragedia come quella dell’Olocausto. E però la vicenda posta dal libro e dal film non investono la libertà di parola, investono, semmai, la libertà di menzogna.
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