La vita è oscena correndo sullo skateboard. Renato De Maria rilegge Aldo Nove

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Un ragazzo esile e tenebroso (il francese Clément Métayer) si aggira per Milano a bordo di uno skateboard. Lo seguiamo in un peregrinare autodistruttivo tra pusher, prostitute debordanti e sadomaso.

Il suo obiettivo? Cancellarsi dal mondo dopo la morte dei suoi genitori.

Fino ad allora era stato un figlio felice, anzi un figlio dei fiori con la mamma hippie e sorridente (Isabella Frrari) e il papà attento e disponibile al gioco (Roberto De Francesco) che vediamo apparire in colorati flashback psichedelici. Poi, uno alla volta, il papà per un ictus, la mamma per un tumore, se ne sono andati, lasciandolo a sprofondare in un lutto insormontabile.

E a noi, spettatori, in un passaggio cromatico dai toni cupi e bui in cui i corpi dei due genitori, come nella favola della bella addormentata, appaiono a più riprese sotto cellophane, proprio sul tavolo di casa dove un tempo mangiavano spensierati.

È La vita oscena di Aldo Nove, diventata film per la regia di Renato De Maria, l’autore di Paz, dedicato alla matita acida e visionaria di Andrea Pazienza.

Qui d’intesa con lo stesso Aldo Nove, che ne firma anche la sceneggiatura, il regista si pone l’arduo obiettivo di tradurre in immagini la poesia estrema del testo. Tentando un linguaggio visivo fuori dai canoni nazionali, con uso ed abuso di gran d’angoli, immagini sature, giochi di sovrapposizioni, percorsi esplorati da anni dalla videoarte, ma mai approdati nel nostro cinema mediano e televisivo.

Non basta però a caricare il racconto di emozione (nonostante la raffinata fotografia di Daniele Ciprì e il sapiente montaggio di Jacopo Quadri) che resta sospeso tra un Train Spotting nostrano e un Mondo di Amélie più acido e sicuramente meno “fantastico” di quello di Jean-Pierre Jeunet.