Le tentazioni del vietcong sbarcato negli Usa. E che ha vinto il Pulitzer, con tanto cinema
Neri Pozza porta in libreria “Il simpatizzante” di Viet Thanh Nguyen, il romanzo che si è aggiudicato lo stesso premio di Roth, McCarthy, Donna Tartt, ossia il Pulitzer. L’autore, vietnamita naturalizzato americano, racconta la storia di un comunista che si finge filoamericano negli anni successivi al conflitto: tra tanto cinema e resistenza e fascinazione per la società occidentale, il ritratto di un uomo che nel suo sdoppiamento guarda al contemporaneo…
Vietnam 1975. I comunisti stanno vincendo la guerra: l’esercito nazionalista e le truppe americane sono ormai sconfitte. I Vietcong si preparano ad entrare a Saigon. Qui c’è un uomo, il Capitano, che lavora per un generale dell’esercito sudvietnamita: un uomo doppio, che ufficialmente agisce per i filoamericani ma in realtà riferisce agli uomini di Ho Chi Minh. È stato abilmente addestrato: da anni vive con i nazionalisti e informa i comunisti attraverso lettere cifrate. Questo l’incipit de Il simpatizzante (pag. 511, euro 18), primo romanzo di Viet Thanh Nguyen, premio Pulitzer per la narrativa 2016, portato nelle librerie italiane dalla casa editrice Neri Pozza.
Caso unico nella nuova letteratura americana degli anni Dieci: l’autore 45enne, di nascita vietnamita, si è trasferito negli Usa a quattro anni – nel 1975, quando si apre il libro – dove oggi è docente di letteratura alla University of Southern California. Il suo romanzo, scritto in inglese, seppure non autobiografico riflette evidentemente se stesso nella figura del protagonista: il Capitano ha una doppia coscienza, dice. Come lo scrittore.
La storia si apre allora con la cronaca di una fuga: bisogna lasciare Saigon al più presto, ma l’amministrazione americana concede un numero limitato di posti sugli aerei verso gli Stati Uniti. Al protagonista spetta redigere la lista dei passeggeri, in una scelta tragica: chi resta in città, all’ingresso dei Vietcong, conosce morte certa. Dopo il rovello etico che avvolge l’avvio, l’intreccio si trasferisce a Los Angeles: qui i profughi vietnamiti si ritrovano, ai margini della società americana, catapultati nel ventre del capitalismo occidentale. Oscillando tra tentata integrazione e (soprattutto) emarginazione, nella speranza – dei nazionalisti – di riaprire la guerra, tra omicidi, spionaggio e doppi giochi.
Thanh Nguyen cita Un americano tranquillo di Graham Greene (da cui il film A quiet american di Phillip Noyce con Michael Caine), ma è un riferimento di fondo che viene messo in dubbio: implicitamente il narratore americano è sia ammirato che criticato, a causa degli stereotipi nell’impaginare il popolo vietnamita inquadrato dallo sguardo americano. Esattamente come, secondo l’autore, avviene in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.
Il protagonista affronta l’ibridazione tra due culture: da una parte il mantenimento della propria origine, dall’altra la fascinazione verso la società occidentale. Il Capitano riconosce la sua apparenza superficiale, ma ne è comunque attratto: così, per giustiziare un sospetto traditore (definito – lombrosianamente – “il maggiore crapulone”), si finge l’omicidio a scopo di rapina che è una “classica tragedia americana”. Ma – per tutti – a sottolineare la complessità del rapporto tra Oriente e Occidente è l’attrazione del Capitano verso una ragazza che, simbolicamente, si concretizza solo quando la vede in vestiti occidentali, senza l’abito Ao dai tipico della tradizione vietnamita.
Esaurito il conflitto l’America inizia subito la sua rappresentazione: il Capitano viene inviato sul set del film Il villaggio, ad opera di un noto regista (il Grande Autore), che vuole girare la pellicola definitiva sulla guerra (e l’ombra di Coppola torna ancora). Il suo ruolo di consulente di parte vietnamita lo pone a confronto con la pratica della messinscena: Hollywood è macchina di propaganda, i Vietcong sono assassini spietati dinanzi agli americani eroi, la stessa lingua del luogo è ridotta a un brusio indistinto.
La retorica, l’omologazione, la manipolazione del pensiero passano attraverso il cinema, braccio armato della politica americana, grande occhio del capitalismo. Qui il romanzo si avvita in abisso: nell’impossibilità di mantenere sullo schermo dignità per i vietnamiti, il protagonista appiana un debito personale, ricostruendo la tomba perduta della madre nel finto cimitero sul set. Che però salterà in aria.
Il nocciolo della questione diventa poi il rapporto con il migliore amico Bon, compagno di infanzia filoamericano, che innesca nel simpatizzante un dissidio interiore tra il rispetto dell’ideale e il tradimento dei propri sentimenti. Ed è questo che conduce verso il finale. Senza dire oltre, omettendo le successive spirali, già basta per sondare la stratificazione del romanzo, i suoi molteplici livelli di lettura.
La politica è il campo di battaglia su cui si combatte, ma Il simpatizzante non è un romanzo politico: è soprattutto umano. La sua sostanza non va rinvenuta nella storicizzazione della guerra del Vietnam, malgrado le pagine erudite che la raccontano, ma nella storia di un uomo a doppia coscienza: che non oscilla verso alcuna delle due – paradossalmente – ma resta perfettamente a metà. Una mente duplice, capace di analizzare una questione da entrambi i punti di vista: fuori dalle ideologie perché le sposa tutte, quindi sempre in mezzo al guado, a rischio di sdoppiamento della personalità. In tal senso, nel ritratto dell’uomo doppio, è anche un romanzo contemporaneo: la doppiezza del protagonista esce dal Vietnam e parla a noi tutti.
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Bellissima recensione !.Bravo ! È un libro che leggerò sicuramente