L’ineluttabile destino della provincia americana. “The evening hour” al TorinoFilmFest

Passato in concorso al TorinoFilmFest, “The evening hour” dello statunitense Braden King, ispirato alle pagine dell’omonimo romanzo d’esordio di Carter Sickel. Un paesino di provincia in West Virginia, miniere chiuse e fabbriche in disfacimento. ll tipo di luogo prediletto da un certo cinema indipendente, non soltanto americano. Colpa, riscatto, purezza, scelte, fallimento, sembrano essere gli implacabili torturatori di queste terre e il film prova a dar voce ai malinconici abitanti di questi luoghi periferici, la cui mappa, più che negli stradari, sembra essere incisa nel loro stesso DNA …

Ineluttabile. Questa è l’aggettivo che meglio descrive The evening hour di Braden King, in competizione al TFF 38. Ineluttabile è il desiderio di sfuggire ad un destino che appare come una condanna, e ineluttabile, a fidarsi della storia narrata, il fallimento che ne consegue.

Ci troviamo a Dove Creek, West Virginia, paesino circondato da miniere chiuse e fabbriche in disfacimento. Il tipo di luogo prediletto da un certo cinema indipendente, non soltanto americano, per rappresentare quel terribile mix di noia, frustrazione e degrado incaricato di obbligarci alla solita, temibile domanda retorica: chi non vorrebbe scappare da un posto così?

Ma non tutti trovano il coraggio e il tempismo necessari per scappare, per lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare altrove. E allora, in quei casi, le fughe a disposizione non riguardano più il luogo in cui si abita, ma la condizione in cui si sceglie di trascorrere le ore del giorno e della notte: una delle fughe statiche più popolari, e alla lunga una delle più esigenti, è quella concessa dai narcotici.

Cole Freeman, il protagonista, interpretato da Philip Ettinger, oltre a lavorare come assistente in un ospizio, per arrotondare si inserisce nel mercato locale dei narcotici, rivendendo medicinali a base di oppiacei. Il suo obiettivo sembra essere quello di gestire un piccolo giro, poco appariscente, in grado di non attirare troppo l’attenzione e, in special modo, di non incappare nelle ire del vero boss locale, Everet.

Si percepisce l’affetto che Braden King e Elizabeth Palmore scrivendo la sceneggiatura tratta dall’omonimo romanzo di Carter Sickel, hanno nutrito per i loro personaggi. E se è apprezzabile l’intento di non scadere in automatismi sterili come l’equazione che vuole qualsiasi spacciatore come il peggiore degli esseri umani, al tempo stesso si fatica a empatizzare con una vicenda molto schematica. In cui ogni personaggio, interessante o meno, finisce con l’assomigliare ad una pedina a cui è concessa una sola, unica mossa. Con dialoghi che spesso si nascondono dietro ad un minimalismo, un poco codardo, che evita di comunicare granché, e non per paura di cadere nella peggior retorica, ma piuttosto, per non rischiare.

Prendiamo ad esempio il rapporto più decisivo di tutto il film. Quello che lega Cole al suo vecchio amico Terry, interpretato da Cosmo Jarvis. Per almeno tre quarti di film si fatica a comprendere l’atteggiamento di Cole nei suoi confronti: arrendevolezza, buon cuore, senso di colpa, persino paura?

Quali altri sentimenti spingerebbero una persona, anche una persona di buon cuore come Cole, ad accettare di vedere la propria esistenza totalmente destabilizzata dal ritorno di un vecchio conoscente? L’amicizia, l’amicizia più pura, questa è la risposta. Ma per trovarne una traccia dobbiamo aspettare la fine del film, e comunque non basta a offrire sangue e profondità a personaggi incapaci di staccarsi dal fondale a cui sono costretti.

Osservando la bellezza aspra del Kentucky in cui il film è stato girato, tornano in mente le parole di un grande cantore di questi luoghi e di questa america, Chris Offutt, quando scrive che ”Non si può dare colpa alle colline per quello che ci succede in cima”. Colpa, riscatto, purezza, scelte, fallimento, sembrano essere gli implacabili torturatori di queste terre, e The evening hour, nonostante tutto, prova a dar voce ai malinconici abitanti di questi luoghi periferici, la cui mappa, più che negli stradari, sembra essere incisa nel loro stesso DNA.