Lou Castel, l’attore che voleva fare la rivoluzione

“A pugni chiusi”, il documentario di Pierpaolo De Sanctis presentato a Torino nella sezione TFFdoc/italiana. Il protagonista de “I pugni in tasca” si racconta: un affresco potente, un film sull’attore ma anche su una visione del mondo e sul tempo che passa…

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“Sono partito, per le scelte dei miei personaggi, dall’opposizione”. È la citazione che apre A pugni chiusi, il documentario su Lou Castel diretto da Pierpaolo De Sanctis che viene presentato in concorso al 34. Torino Film Festival nella sezione TFFdoc/Italiana.doc.

Il film, nell’arco di 74 minuti, ripercorre la vita e la carriera dell’attore svedese naturalizzato italiano: lui si racconta alla macchina da presa, camminando per Roma oggi, in un percorso tra memoria e presente. Il regista, anche sceneggiatore con Alessandro Aniballi e Giordano De Luca, esegue un pedinamento dell’attore alternando le inquadrature contemporanee alle immagini di repertorio, estratti da sequenze dei film e riprese dalle manifestazioni d’epoca.

Voleva fare il regista, Lou Castel: voleva fare l’aiuto di Fellini, ma poi Marco Bellocchio lo sceglie per girare I pugni in tasca. Era il 1965: Castel, attore comunista, attivista di sinistra, diventa simbolo del cinema della contestazione incarnando il personaggio di Alessandro nel capolavoro del cineasta di Bobbio.

Non è certo il canonico inizio di una “carriera”: Lou realizza con dolore che la recitazione “non può cambiare il mondo”, e allora gradualmente aumenta sempre più il suo impegno politico. Nel 1969 aderisce alla formazione maoista Servire il popolo, tra i gruppi fuoriusciti dal Movimento studentesco. Parte una parabola che porterà alla sua espulsione: Castel fu dichiarato indesiderabile, allontanato dall’Italia e messo su un aereo per Stoccolma.

De Sanctis interroga con pazienza l’attore ottenendo in cambio l’intimo, i particolari sconosciuti di se stesso. Compresi quelli più scomodi: Castel racconta la difficoltà di tornare nel quotidiano, alla fine delle riprese con Bellocchio, e la sofferta contraddizione tra la resistenza al capitalismo e il mestiere dell’attore, che inevitabilmente risponde a logiche commerciali. Racconta perfino il sesso. A proposito de I pugni in tasca dice: “Volevo diventare regista, ma poi con Bellocchio sono diventato alleato di un regista: l’attore deve fare sempre la regia interna di una scena”. Sull’impegno totalizzante col movimento: “Mi cercava Louis Malle, ma non mi trovava perché facevo il militante”. E sulla rivendicazione del passato: “Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio”.

Il protagonista si muove vicino al gazometro e nei pressi del Tevere, camminando nell’architettura contemporanea che è il resto di quella che fu, in un dialogo continuo tra passato e presente. Di film in film, da Bellocchio passando per Salvatore Samperi e Liliana Cavani e poi ancora Bellocchio, sul set de Gli occhi, la bocca nel 1982.

Alla fine Castel cita Godard, secondo cui nel corso della vita esistono “diversi noi”: anche lui è un altro Lou rispetto a quello degli anni ’60. Emerge l’autoritratto di un vero anti-attore, figura impensabile oggi, al tempo del facile divismo e delle frasi da social network: affresco potente, film su un attore ma anche su un luogo, una visione del mondo, il tempo che passa.