Con Rimbaud il cinema ad occhi aperti. Ma con ironia

È “Chi mi ha incontrato non mi ha visto” di Bruno Bigoni, un mockumentary ironico e poetico sul nostro contemporaneo. Una foto “ritrovata” di Arthur Rimbaud fa da traccia ad una riflessione sul falso e il vero, e il desiderio di credere. Al Torino filmfest e pure al festival Filmaker di Milano…

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C’è una storia d’amore innanzi tutto: quella del regista per Arthur Rimbaud che ha scoperto a vent’anni e non ha più mollato. C’è una detection story intorno ad una foto misteriosa offerta al regista da una signora francese in cui è ritratto – o almeno così sembrerebbe  – il poeta delle “illuminazioni”.

C’è poi la poesia, ovviamente, quella del più maledetto dei poeti maledetti, che ha smesso di scrivere ad appena vent’anni, che si dice abbia finito i suoi giorni facendo il mercante di schiavi, che è diventato il vate dei surrealisti, dei dadaisti, di John Lennon e Jimi Hendrix…

E quindi c’è anche la musica, quella che comprende più o meno i dieci dischi della “vita” che vanno da Revolver dei Beatles a Highway 61 Revisited di Dylan, da The Wall dei Pink Floyd a Aftermath degli Stones, perché – ricorda sempre il regista – per dirla con Shakespeare: “diffida di chi non ama la musica, potrebbe essere un ladro o un assassino”.

Insomma a guardar bene, Chi mi ha incontrato non mi ha visto, è apparentente un film su Arthur Rimbaud, apparentemente un film sulla dialettica tra falso e vero, centrale nel nostro contemporaneo, ma in realtà è un film su Bruno Bigoni, ossia il regista.

Che non è né ladro, né assassino, così che dopo tanti anni dietro alla macchina da presa – tanto cinema del reale a scavare nel sociale, soprattutto – si interroga sul suo lavoro che poi significa punto di vista, sguardo, guardare, proprio come recita il titolo – mutuato dai versi dello stesso Rimbaud – Chi mi ha incontrato non mi ha visto. Che ha a che fare con l’indifferenza, con la superficialità e la cecità del nostro presente.

“È quello che ormai facciamo tutti i giorni – sottolinea infatti lo stesso Bigoni – e penso a quei tanti ragazzi neri, per esempio, che incontriamo ma non vediamo. Che è poi come ascoltare e non capire”.

Il documentario allora, uno dei pochi spazi di innovazione rimasti al cinema, si presta al racconto, e quindi alla poesia di Rimbaud in forma di mockumentary, luogo di scambio tra falso e vero per definizione.

Eccoci dunque spettatori di questa “magnifica ossessione” che guida il regista nella ricerca di indizi sull’autenticità della foto. Rimbaud, sul letto di ospedale, la gamba amputata e un foglio in mano con dei versi inediti. Vero o falso? Nel mezzo molta ironia – soprattutto tra i tanti testimoni autorevolissimi che si prestano al gioco – , persino delle risate, emozioni e un pizzico di  commozione. Perché del resto come conclude una lontana parente del poeta – vera o falsa chissà ? – quello che conta è quello che si vuole credere….