Macbeth è donna. Nel cinema espressionista di Daniele Campea

In sala dal 14 giugno (per Distribuzione indipendente) “Macbeth – Neo Film Opera”, esordio di Daniele Campea. Il regista ravviva l’archetipo shakespeariano con una messinscena in bianco e nero, dove i personaggi escono dal buio come un concerto di fantasmi. È una “sensazione di Macbeth”, la costruzione di un umore che deriva dalla fonte seicentesca e si cala nelle forme dell’oggi. E Macbeth è interpretato da una donna, Susanna Costaglione. Tra David Lynch e i paradossi del teatro-cinema di Carmelo Bene…

Sabotare il classico, ravvivare l’archetipo. Se un testo è tanto largamente frequentato, rappresentato in ogni tempo e luogo, a teatro e cinema, da Orson Welles all’ultimo Justin Kurzel con Fassbender e Cotillard, allora c’è un solo modo per reinstallarlo nell’oggi: attraverso una riscrittura peculiare.

Così è il Macbeth di Daniele Campea, ovvero Macbeth – Neo Film Opera, esordio del regista abruzzese girato nel 2016 e presentato al Festival di Taormina, che arriva in sala dal 14 giugno. Per la verità, il testo del capolavoro shakespeariano viene rispettato filologicamente: per tutti i 50 minuti del film, a partire dall’inizio, con la profezia delle Parche come filastrocca sul futuro degli eventi.

Il gesto di rottura, qui, avviene nel linguaggio: il cineasta disegna un Macbeth espressionista in bianco e nero, il nero fa da sfondo costante e le figure emergono in rilevanza, di volta in volta, quando assumono centralità nel racconto. Così la tragedia si offre come una sorta di concerto di spettri: i personaggi affiorano, “rompono” le tenebre per interpretare la scena e poi sono di nuovo avvolti nell’oscurità.

A tratti il bianco e nero si esalta nelle sequenze collettive, a tratti diventa come un bisbiglio nel buio. E c’è di più: Macbeth è interpretato da una donna, Susanna Costaglione, scelta inedita a ribadire ulteriormente che non si cerca verosimiglianza, ma siamo nella zona del film mentale.

Nell’esecuzione del Macbeth i quadri dei personaggi scorrono in montaggio alternato a riprese della natura, sempre ombrose e crepuscolari, con funzione di stacco tra uno squarcio e il successivo. E, soprattutto, la musica si sviluppa sui brani di Giuseppe Verdi (Macbeth, Requiem, Te Deum) mescolati agli innesti sperimentali dello stesso regista. È lui a spiegarne il ruolo strategico: “La musica non si limita a fare da colonna sonora alle immagini – dice -, ma le immagini stesse creano una ‘colonna visiva’ per le musiche, la recitazione si basa su precise scansioni ritmiche e ogni elemento sonoro si amalgama completamente con la sua controparte visiva”.

È una recita psichica, il Macbeth di Campea, che corteggia la pratica della fotografia industriale, come quella di David Lynch, i paradossi del teatro-cinema di Carmelo Bene e si muove volutamente su un terreno concettuale: è una “sensazione di Macbeth”, la costruzione di un umore che deriva dalla fonte seicentesca e si cala nelle forme dell’oggi. Allo stesso tempo è un esercizio di messa in scena, a suo modo umile, perché il suo rispetto per chi guarda sta proprio nel costruire un’ipotesi alternativa, dimostrando che un testo antico si può rifare ancora: basta avere un’idea per rappresentarlo.