Le invasioni barbariche di Michael Moore

In sala il 9, 10 e 11 maggio per Nexo Digital e Good Films, “Where To Invade Next”, il nuovo film del regista americano dedicato all’Europa dei diritti e della democrazia. Ma non si è accorto che quell’Europa è diventata altro…

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Niente petrolio stavolta. L’invasione è per “rubare” democrazia, invece che “esportarla”. E sì, perché dopo tante “sporche guerre”, il messaggio è fin troppo esplicito: gli States la loro – democrazia s’intende – se la sono persa per strada, divorata dal capitalismo. Perché, allora, non andarla a cercare in Europa e riportarne i sani principi in America?

Michael Moore, a sei annni da Capitalism: A Love Story sulla crisi finanziaria del 2008, torna a raccontare l’America e la sua deriva sociale e politica affilando la sua arma preferita: la provocazione. Stavolta, però, un’arma spuntata in partenza.

La tesi di Where To Invade Next, infatti, è semplice. Anzi, del tutto semplicistica. Mostrare “il buono” dell’Europa nel corso di un lungo viaggio attraverso i vari paesi, dimostrando che il Vecchio continente è una sorta di “campione” dei diritti civili e sociali a fronte degli States che li hanno calpestati.

Vaglielo a spiegare al vecchio Michael che le piazze di Parigi si riempiono contro il Jobs Act, che quelle italiane lo hanno già fatto e e così in tutta Europa. Tanto lui si giustifica: “il nostro compito è raccogliere i fiori e non le erbacce”. Al punto da riuscire a scovare, proprio qui da noi, gli ultimi “esemplari” di impiegati col posto fisso per farsi dire: abbiamo otto settimane di ferie pagate l’anno. Neanche fossero Checco Zalone. Oppure andare alla Ducati per ascoltare dall’amministratore delegato quanto sia felice di pagare le ferie ai suoi dipendenti.

E più o meno è così anche negli altri paesi che Moore “invade” con la bandiera a Stelle e strisce in mano. Tra i bimbi di una mensa scoltastica francese dove non esistono hamburger e Coca cola, ma pasti sani e calibrati. A Lublijana, in Slovenia, dove una studentessa statunitense frequenta l’università senza indebitarsi con lo stato perché, udite udite americani, l’istruzione è pubblica.

Nella Norvegia, ancora ferita dalla strage di Oslo, dove non c’è la pena di morte e i detenuti in carcere non vengono pestati dalle guardie, ma vivono in candide celle col televisore. In Islanda dove il potere è in mano alle donne, in Finlandia dove gli studenti non hanno compiti a casa e il sistema scolastico si occupa in maggioranza del loro e svago e felicità. In Portogallo dove la legalizzazione delle droghe ne ha ridotto il consumo, diversamente dagli Sati Uniti dove il crak e quelle sintetiche sono state utilizzate per emarginare e criminalizzare le comunità nere.

Ecco, alla fine, questa è l’unica riflessione politica di tutto il film, insieme a quella che ricorda il genocidio degli indiani alla base della nascita della Nazione, tema ancora tabù per molti americani. E che a noi ci rimanda la memoria del graffiante Michael Moore dei bei tempi, quelli di Roger & Me, Bowling for Columbine e anche Fahrenheit 9/11. Tempi che, a giudicare da questo suo ultimo lavoro, sembrano davvero tramontati. Peccato.