Nel “dolore” di Marguerite Duras. Col film che colpisce al cuore
In sala dal 17 gennaio (per Valmyn e Wanted), “La douleur” adattamento di Emmanuel Finkiel del romanzo spudoratamente autobiografico di Marguerite Duras (Feltrinelli). La disperata, quotidiana, e fortemente autolesiva attesa di una donna che spera di sentir suonare la porta e ritrovarsi davanti vivo il marito catturato nel ’44 dai nazisti. Forse usato come antidoto o vaccino per non morirne, è il diario del suo vero dolore che, dopo aver rimosso per 40 anni, la Duras ritrova con spavento e stupore dentro un armadio. E il film, doloroso come il titolo del romanzo a cui si ispira, è da non perdere …
La scrittura di Marguerite Duras (Gia Dinh, Indocina Francese 1914, Parigi 1996), tra romanzi o sceneggiature, ha offerto molte buone chances al cinema (Una diga sul pacifico, Hiroshima mon amour, L’amante). Ma, dopo aver letto La douleur e aver visto il film che Emmanuel Finkiel ne ha tratto, sembra impossibile immaginare una scrittura e regia più profonde e aderenti al testo – in questo caso di non facile trasposizione – di questa autrice.
Magistralmente interpretato da Mélanie Thierry, Benoît Magimel e Benjamin Biolay, La douleur che, preceduto da un’accoglienza più che favorevole da parte della stampa francese, è nelle nostre sale dal 17 gennaio distribuito da Valmyn e Wanted, racconta la disperata, quotidiana, e fortemente autolesiva attesa di una donna che, come tante a quell’epoca nelle sue condizioni, spera ancora, contro ogni logica probabilità, di sentir suonare la porta e ritrovarsi davanti vivo il marito catturato nel ’44 dai tedeschi e poi spedito a Dachau.
Spudoratamente autobiografico, e forse usato come antidoto o vaccino per non morirne, è il diario del suo vero dolore.
Testo che casualmente, dopo averlo rimosso per quarant’anni, la Duras ritrova con spavento e stupore dentro un armadio di una casa di campagna in due quaderni fitti fitti di una calligrafia minuta, straordinariamente regolare e calma che descrive così: “ Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura”.
Scritto a Parigi a cavallo della fine della seconda guerra mondiale è stato infatti pubblicato solo nel 1985 in Francia da P.O.L. éditeur e in Italia da Feltrinelli.
Il diario si apre con una prima parte, La douleur – da cui il titolo di libro e film – scandendo i giorni di spasmodica attesa di quell’aprile del ’45 che si succedono corrosivi e uguali, tra il divano di casa, pronta a rispondere a uno squillo o suono del campanello, e il Centro d’Orsay, sua meta quotidiana in cerca di notizie per le famiglie dei parenti dei deportati o prigionieri da trasmettere in Libres, il giornale fondato nel ’44 coi suoi compagni della Resistenza.
Sta lì con un improvvisato tavolino in cerca di informazioni, trattata con insofferenza dai gollisti impomatati della Destra risorta e dalle loro collaboratrici con labbra e dita laccate, piazzati subito, come da sempre succede dopo ogni guerra, al posto degli ex potenti appena cacciati.
Il suo è un calvario quotidiano – che la mostruosa follia di chi a quei tempi ha ordito gli orrori di quella guerra ha inflitto al mondo – ma non è solo questo: è anche un’auto condanna, un desiderio di punirsi e astenersi dalla vita come se questa sua partecipata sofferenza potesse in qualche modo saldare il conto con quella del marito Robert Atelme, ebreo, anche lui scrittore impegnato nella Resistenza, che, forse già da prima della cattura e della deportazione, lei aveva cominciato a smettere di amare.
La seconda parte del libro, composta da cinque ritratti, si apre con quello di Pierre Rabier, spia della Gestapo, un delatore che la Duras incontra per la prima volta nel giugno del ’44 nella sala d’attesa della prigione di Fresnes dove il marito è stato appena rinchiuso.
È lui che la riconosce, l’aggancia e le confessa, essendo lei una scrittrice, le sue ambizioni intellettuali e il desiderio di aprire a Parigi una libreria d’arte. Lei lo asseconda, accetta i suoi appuntamenti sperando di aiutare o quanto meno conoscere la sorte del marito, e anche lui probabilmente alterna ad una sorta di attrazione, la speranza di estorcerle notizie sui compagni della Resistenza. Ma c’è anche altro che scandisce questi inquietanti e ambigui appuntamenti: una reciproca vena di follia che non risparmia nessuno in quegli anni di incancellabile vergogna.
Questo ritratto di Rabier (indossato da un imponente Magimel) assume un peso centrale nella sceneggiatura del film, entra, recuperando la cronologia dei fatti, nel corpo de La douleur da cui verrà invece sapientemente escluso il tempo del recupero fisico del corpo di Atelme, portato a casa pelle e ossa, però incredibilmente vivo, da Dachau, dai suoi compagni della Resistenza.
Film doloroso, come il titolo, ma da evitare di perdere.
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