Non solo poveri ma belli. La gioventù dei ’50 vista da cinema & co. (in un doc)
Passato al Torinofilmfest, “Bulli e Pupe”, nuovo tassello della ricerca cinemantropologica di Steve Della Casa e Chiara Ronchini. Sotto i riflettori ragazzi degli anni Cinquanta, ma al di là delle immagini «scontate» di una gioventù «povera ma bella», appena uscita dalla guerra. Attraverso il cinema (Germi, Castellani, De Santis), la letteratura (Parise, Bianciardi, Flaiano, Calvino) e le voci di filosofi e politici dell’epoca, un ritratto generazionale doc …
Non fatevi ingannare dal titolo Bulli e Pupe e, soprattutto, dal sottotitolo, Storia sentimentale degli anni Cinquanta. Perché questo documentario firmato da Steve Della Casa e Chiara Ronchini, targato Istituto Luce Cinecittà (in collaborazione con Titanus), e appena passato al Torino Film Festival va oltre le immagini «scontate» di una gioventù «povera ma bella», appena uscita dalla guerra.
Immagini che, dunque, partono simbolicamente dalle rovine di Montecassino nel 1944, attraversano le città (Roma soprattutto) slabbrate dai vuoti della guerra e di un’urbanizzazione ancora non esplosa. Tra quinte care al neorealismo si muovono ragazzini, adolescenti e giovani: quelli, insomma, per cui l’Italia dovrà essere rimessa in piedi, quelli che si aspettano il futuro. A scandire le davvero straordinarie immagini – pescate negli Archivi del Luce, della Titanus e di altri importanti istituzioni e associazioni – c’è un controcanto di sequenze cinematografiche, di voci tratte da interviste radiofoniche e di letture di brani di scrittori che hanno raccontato e descritto il Paese di quegli anni.
I titoli dei film «citati» – vanno da Gioventù perduta (1947) di Pietro Germi a Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani, da Roma ore 11 (1952) di Giuseppe De Santis a Poveri ma belli (1957) di Dino Risi, a I ragazzi dei Parioli (1959) di Sergio Corbucci – sono le tappe di un percorso nei «sentimenti» di una gioventù, prima spensierata, poi bruciata dalle delusioni della ricostruzione.
Così come i brani letti, di Goffredo Parise (da Quando la fantasia ballava il boogie), di Luciano Bianciardi (da Il lavoro culturale), di Ennio Flaiano (da Un marziano a Roma), di Pier Paolo Pasolini (sul divario di classe Nord/Sud) e di Anna Maria Ortese (sugli operai del Sud che arrivano a Milano), scandagliano immaginazioni, pensieri, comportamenti, lavori.
Così come, ancora, le voci radiofoniche registrate di giovani dei primi anni Cinquanta svelano aspirazioni, sogni, sensi di rivolta ma anche parecchie delusioni, frustrazioni, sorprendenti acquiescenze e conformismi, confessa un giovane del Sud: voglio andare a Roma, perché lì ci sono i ministeri e posso trovare una raccomandazione. Gli risponde il giovane operaio comunista che vede la soluzione nel «vincere le elezioni o fare la rivoluzione».
Altre voci le accompagnano, voci di politici che se la prendono coi «viziacci» dei giovani inurbati, voci di filosofi (da Guido Calogero ad Arturo Carlo Jemolo, a Giuseppe Prezzolini) più o meno pontificanti sui comportamenti giovanili. C’è spazio anche per alcune divertenti notazioni sui linguaggi e gli slang dell’epoca. Sapete come si diceva allora prendersi uno sballo alcolico? Raggiungere «quota Kappa 2». O scoprire che accanto al classico cartello «qui non si affitta ai meridionali» sui muri spuntava la scritta: «terroni = arabi» (davvero poco è cambiato!).
Steve Della Casa, critico cinematografico e tra i fondatori del Torino Film Festival, prosegue la sua ricerca cinemantropologica già avviata con il precedente Nessuno ci può giudicare del 2017, validamente affiancato e sostenuto nel lavoro di ricerca e nel fluido e perfetto lavoro di montaggio da Chiara Ronchini. Le musiche originali di Gabriele Giambertone e Marco Corrao, legano il tutto con un tessuto musicale sobrio e non invadente che ci salva dalle banali e abusate hit-parade d’epoca.
Se avrà una buona distribuzione (e magari se passerà in tv) andate a conoscere questi Bulli e Pupe, che hanno attraversato quella che Italo Calvino – citato anche lui nel film – definisce «la belle époque inaspettata»; e che amaramente giudica come il tempo di «tutto quello che non abbiamo fatto, potevamo fare e non faremo».
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