Se la camorra (non) è un gioco da bambini. “La paranza” dei ragazzi del muretto
In sala dal 13 febbraio (per Vision Distribution) dopo il passaggio in concorso alla Berlinale, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano che firma la sceneggiatura insieme al regista e a Maurizio Braucci. La storia dei baby-killer assoldati dalla camorra si trasforma in un racconto sull’adolescenza negata, con facili cliché e momenti narrativi piuttosto noiosi …
Sono passati undici anni da Gomorra di Matteo Garrone e né serie o film riescono a reggerne il confronto senza apparire rovinosamente già visti.
Eppure stavolta le carte c’erano tutte. Un altro romanzo di Roberto Saviano (La paranza dei bambini) capace ancora una volta di accendere riflettori internazionali, trattandosi di camorra, certamente, ma quella meno nota e spietata dei baby-boss (con tanto di seguito, Bacio feroce, sempre Feltrinelli). Un regista apprezzato come Claudio Giovannesi che dell’universo giovanile si è dimostrato narratore sensibile (da Fratelli d’Italia a Fiore). Uno sceneggiatore navigato come Maurizio Braucci che proprio da “quel” Gomorra ha conosciuto il successo.
Questi, infatti, gli illustri artefici di La paranza dei bambini, produzione Palomar con Vision Distribution e Sky (“alleanza” cinematografica tra le più prolifiche, nonché produttori anche del nuovo film di Veltroni), che ha portato l’Italia in concorso alla Berlinale col consueto clamore delle grande occasioni. Ma non sempre sufficiente per portare poi il pubblico in sala dove il film arriverà domani, 13 febbraio, in 300 copie.
Siamo a Napoli ancora una volta, tra i vicoli tortuosi e bui dei “quartieri”, dove ‘o sistema ha una delle sue maggiori piazze di spaccio. Qui si muovono – in motorino – Nicolas e suoi amici, banda di adolescenti fra le tante, affascinati dalle gesta dei boss e ancor di più dai soldi facili.
Sono loro i “paranzini”, i baby-killer della camorra, la carne da macello della malavita, “tragici” protagonisti delle cronache a seguito dell’inchiesta dei pm Woodcock e De Falco che, qualche anno fa, portò alla luce per la prima volta il dramma di questa adolescenza senza futuro, a cui già Michele Santoro ha dedicato il suo Robinù.
Roberto Saviano nel suo libro li racconta con crudo realismo, affondando nelle loro vite violente e spietate. Non si tratta del resto di emarginati, ragazzini di periferia spinti al furto per povertà, ma figli della piccola e media borghesia (è un insegnante il padre del protagonista) pronti a rapinare, sequestrare e uccidere per comprarsi vestiti di marca e Rolex, per affermare il loro potere nelle strada, sprezzanti nei confronti della vita e della morte. Loro e del loro prossimo.
Un’inferno, insomma, che nel film di Claudio Giovannesi, però, diventa altro. Per scelta programmatica degli stessi autori. Qualcosa di più soft e digeribile dal grande pubblico, magari quello stesso degli adolescenti (target desiderato). Perché è di loro che si racconta del resto.
Spazio dunque alla storia d’amore tra Nicola (Francesco Di Napoli) e Letizia, la bellissima figlia di quello del ristorante alla Sanità. Per conquistarla la ricopre di palloncini rossi, complici i suoi amici qui in veste di solidali compagni, pronti all’occorrenza però a trasformarsi in rapinatori senza scrupoli, affascinati dalle armi (“bella bella” ripete a mo’ di mantra il fratello piccolo del protagonista davanti ad ogni pistola che gli passa davanti).
Peccato per quelle loro faccette simpatiche e bonarie (scovate dopo un lungo casting nelle scuole di Napoli) più da ragazzi del muretto (c’è pure il cicciottello di rito) che da baby-boss assetati di sangue. Politicamente corretti persino nel linguaggio. Parlano napoletano certamente, ma attenti a non usare espressioni volgari, soprattutto se si tratta di coetanee (“che bella ragazza” dicono guardando una passerella di sventolone). E persino le droghe – a parte una “botta” di coca obbligata dallo spacciatore cattivo – sono quelle “leggere”. Soltanto erba da fumare e da spacciare per i baby-killer del film (che poi ora c’è pure quella legale). Imperituri cliché camorristi (e basta coi leoni d’oro e il kitsch delle case dei mafiosi!) e una narrazione discontinua foriera di molti sbadigli, completano il quadro.
Quanto allo sfoggio di pistole, mitragliette e varie di cui fanno inevitabile cattivo uso i giovani “paranzini”, rimandiamo ai due ragazzi in mutande di Gomorra che coi kalašnikov sparano sull’acqua, un fermo-immagine d’autore definitivo in fatto di gioventù bruciata, infanzie negate e affini. Che ci pensino registi e produttori prima di tornare su certi temi.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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