Perché “I tre moschettieri” non invecchiano mai. In sala la nuova lussuosa produzione francese

In sala dal 6 aprile (con Notorious Pictures) “I tre moschettieri – D’Artagnan” di Martin Bourboulon, primo capitolo di un dittico dumasiano da 75 milioni di euro di cui è già atteso “I tre moschettieri – Milady”. L’ennesima versione cinematografica del grande classico che funziona e non annoia mai. Mentre le avventure de I tre moschettieri che poi sono quattro, continuano ad affascinare e produrre anche nuove riedizioni letterarie, compresi i manga …

Era Carnevale, avrò avuto 3 o 4 anni, indossavo uno sfavillante costume da moschettiere con tanto di cappa azzurra con giglio reale e bordature in passamaneria dorata cucito dalla nonna. Camicia bianca a sbuffi, pantaloni, stivali, cappello a larga tesa con la piuma e fioretto di plastica d’ordinanza alla vita completavano la messinscena.

Non mancavano nemmeno gli indispensabili baffetti e il pizzetto, disegnati bruciando un turacciolo di sughero (fortuna ha voluto che non siano rimaste prove incriminanti dell’abuso sul minore). Forse assomigliavo più al Luca Tortuga dei cartoni animati che all’eroico e affascinante D’Artagnan ma i ricordi dell’infanzia tendono all’epico e guai se non fosse così.

Forse avevo visto I tre moschettieri in tv o magari era una scelta di mia madre nel volermi bardato così per il veglioncino dei bambini del paese. Del resto all’epoca le alternative ammesse non erano tante: cowboy, Zorro o diavolo con coda appuntita e forcone. Per questo chi dice di non aver mai frequentato I tre moschettieri da bambino ha di certo qualcosa da nascondere, forse un’infanzia infelice, o ha comunque una lacuna imperdonabile da colmare.

Certo è che quella che spesso è stata liquidata come letteratura per ragazzi (maschi) è, al contrario, un classico intramontabile nel quale Alexandre Dumas padre ha infilato talmente tante cose e disposto altrettanti piani di lettura da farne materia per ogni età.

Come diceva Italo Calvino, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, e per questo continua nel tempo ad offrire motivi, mai noiosi e mai banali, con quel tocco speciale che solo un grande romanzo può avere. Ma perché tirare in ballo ora questo eterno campione del genere cappa e spada? Perché ho visto un film.

Ho visto, per l’appunto, I tre moschettieri – D’Artagnan (2023), il primo capitolo di un dittico dumasiano da 75 milioni di euro. La lussuosa produzione francese, Chapter 2 e Pathé, per la regia di Martin Bourboulon (già regista di Eiffel) sarà sugli schermi italiani dal 6 aprile (mentre l’uscita francese della seconda parte, I tre moschettieri – Milady, è annunciata per il 13 dicembre).

Si, è l’ennesima versione che il cinema ha portato sullo schermo, secondo Wikipedia ammontano a 26, ma forse sono anche di più. La mia prima volta? Quella di George Sidney del 1948, in uno dei mille passaggi in tv, con la Milady Lana Turner, Vincent Price/Richelieu e Gene Kelly nella parte del guascone D’Artagnan. Ma la mia preferita, però, è sempre stata la sontuosa opera di Richard Lester del 1973, con Michael York, Oliver Reed e Raquel Welch, tra lo scanzonato e il dissacrante, probabilmente la versione più picaresca dell’opera di Dumas.

Anche in questa nuova produzione c’è un cast di alto livello per raccontare le avventure dell’aspirante moschettiere Charles d’Artagnan (François Civil) e dei moschettieri effettivi Athos (Vincent Cassel), Porthos (Pio Marmaï, protagonista del film Leone d’oro a Venezia 78, La scelta di Anne) e Aramis (Romain Duris) nella Francia del 1627, dilaniata dalle guerre di religione e dalle trame di palazzo alla corte di Luigi XIII (Louis Garrel) e Anna d’Austria (Viky Krieps). Non mancano, ovviamente il perfido Cardinale Richelieu (Eric Ruf), l’implacabile Milady (Eva Green) e la dolce guardarobiera e confidente della regina Costanza Bonacieux (Lyna Khoudri).

Diciamo subito che, a fronte di una storia così spesso rivisitata, non ci si annoia neanche un minuto. Ma il registro scelto è forse più cupo del solito, e sottolinea così l’ambiente, il paesaggio e gli intrighi senza penalizzare la spettacolarità dei duelli, enfatizzati da un cospicuo uso della macchina a spalla.

C’è una modernità di sguardo, di linguaggio cinematografico, che però non è quella del Cyrano di Joe Wright con Peter Dinklage. Anzi, la sua forza sta proprio nella fedeltà al testo letterario. Prendendosi però la libertà di dare spessore alla narrazione stereotipata del moschettiere guascone e sbruffone: l’Athos di Cassel è un uomo sprofondato nel proprio tormento; D’Artagnan stesso, nella sua irruenza, ha un che di timido.

Nel passaggio dalla pagina allo schermo la sceneggiatura di Alexandre de la Patellière e Matthieu Delaporte, almeno per quanto visto in questo primo capitolo, ha scelto di depurare la storia di alcuni personaggi, come Monsieur Bonancieux, il marito di Costanza, e passaggi che avrebbero inutilmente appesantito lo scorrere narrativo.

“Forse non tutti sanno che” per la scrittura del feuilleton, inizialmente pubblicato a puntate su Le Siecle nel 1844, Dumas veniva pagato a riga e, senza nulla togliere al valore dell’opera, si spiegano le molte figure di secondo piano e certe ridondanze narrative e formali (che qui sono state asciugate). Inoltre era interessante, e tipico del genere, l’uso di riprendere azioni della puntata precedente per rinfrescare la memoria al lettore e procedere nel racconto. Un po’ come accade anche oggi con le serie tv.

Nel racconto che si svolge nella Francia del 1627 divisa, nell’Ancien Régime, tra un popolo miserabile e una casta insopportabilmente potente, il testo come il film che ne deriva con rispetto, rivede la storia, e oppone la verità del rapporto umano che unisce contro tutti gli intrighi e sventa le cospirazioni alla ragion di stato e alle consorterie di malvagità, tradimenti e vendette.

Una nuova occasione per abbandonarsi al racconto e accettarne anche alcuni peccatucci veniali: le pistole ad avancarica monocolpo in alcune scene sparano con eccessiva rapidità… ma chissenefrega, più guardie del Cardinale si fanno fuori meglio è. Possiamo fare tutti i ragionamenti possibili, ma la magia de I tre moschettieri sta nel riportare a galla quella componente infantile che ci imbarazza ammettere.

Cosa, allora, di quest’opera, colpisce in maniera profonda così tante generazioni diverse? Credo che le risposte siano tante, proprio perché ogni volta che si prende in mano I tre moschettieri si scoprono cose nuove: da piccoli è l’avventura e il senso di invincibilità che trasmettono i quattro. Athos, Porthos, Aramis e D’Artagnan galoppano su e giù per mezza Francia e un po’ di Inghilterra, di volta in volta combattono valorosamente aumentando vieppiù cameratismo e amicizia. Il lettore più maturo, senza perdere l’entusiasmo infantile, inizia a cogliere l’intreccio tra fatti storici e fantasia.

È la forza delle grandi storie. E poi, quanto si deve essere divertito Dumas a scrivere questo capolavoro dell’intrigo che cattura ancora oggi il lettore e lo spettatore, lo spiazza, lo depista, lo inganna e lo rende complice. Soprattutto intitolando una storia ai comprimari e non al protagonista perché I tre moschettieri sono quattro, ma – come ha osservato Umberto Eco, uno dei tanti grandi fans di Dumas – il romanzo è palesemente “la storia del quarto”, di D’Artagnan.


Gino Delledonne

Gino Delledonne
Architetto e docente universitario a contratto. Ha collaborato alle pagine culturali di vari giornali tra i quali "Diario" e "Archivio". Devoto del gruppo garage punk degli Oblivians.


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