Quando già Shakespeare raccontava i femminicidi. Edoardo Leo rilegge “Otello” al cinema

In sala dal 14 novembre (per Vision Distribution) “Non sono quello che sono” nuova regia di Edoardo Leo, anche interprete nel ruolo di Iago. Si tratta, infatti, di una rilettura contemporanea dell’immortale tregedia shakespeariana, “Otello” ambientata nel mondo malavitoso del litorale laziale. Emerge la forza di un testo che resta tragicamente attuale. Presentato allo scorso Festival di Locarno …

Non era necessario mantenere gli stessi nomi dei protagonisti, Iago, Desdemona e naturalmente Otello, perché il film di Edoardo Leo Non sono quello che sono (qui alla sua ottava regia) dimostrasse la sua piena fedeltà all’originale testo letterario.

Non era necessario perché l’idea di trasporre l’immortale Otello del grande William Shakespeare nel litorale laziale di Anzio e Nettuno, arricchendola di un’atmosfera cupa e invernale e innescandola sulle trame della malavita locale, è tutt’altro che peregrina. Anzi getta una luce sinistra sui femminicidi contemporanei, rendendo attualissime le ragioni profonde in cui maturano certe pulsioni, al di là dei luoghi e del tempo. E quindi nomi più aderenti al contesto sociale non avrebbero tolto nulla alla forza di un testo che resta tragicamente attuale.

La storia è conosciutissima, e vale la pena ricordarne solo i punti salienti. Il perfido Iago (lo stesso Edoardo Leo) istilla nella mente di Otello, boss malavitoso con accento romano ma “moro” di origine (come l’attore che lo interpreta Jawad Moraqib), il dubbio che la moglie Desdemona (un’Ambrosia Caldarelli molto aderente al ruolo) lo tradisca con l’amico fraterno Michele (Matteo Olivetti, l’unico a cui viene dato un nome diverso dall’originale Cassio), colui che minaccia la posizione di Iago come braccio destro del boss.

Il dubbio si trasforma in gelosia, in un tormento tale da spingere Otello a uccidere la moglie prima di togliersi lui stesso la vita quando scoprirà infine l’inganno.

Il film è raccontato in flashback da Iago che sta scontando la pena in prigione ed è intervistato da una giornalista vent’anni dopo il delitto. Si fa un po’ di fatica iniziale a mettere a fuoco i personaggi e a superare la diffidenza dovuta a un uso spregiudicato del dialetto romano, che risulta spesso fastidioso in certi sceneggiati televisivi e in un certo cinema di serie b.

Qui invece, quando la storia prende l’abbrivio, l’uso del dialetto e anche le dinamiche tra i personaggi oltre alla lividezza dell’ambientazione – che nulla toglie all’impianto teatrale di una vicenda imperniata sui personaggi e sui loro singoli ruoli – acquisiscono un senso compiuto.

Vale la pena citare la prova di Antonia Truppo, la cui parlata napoletana risulta aderente alla storia (nel ruolo della moglie di Otello), e il ricorso frequente al termine “infame”, tornato di tragica attualità nel linguaggio di alcuni politici, anch’esso usato qui in modo appropriato.

Tra le citazioni non poteva mancare il film di Matteo Garrone e la serie, Gomorra per il paesaggio e per certe attitudini malavitose. Mentre l’uso del piano sequenza ricorda un’analoga scena di Quei bravi ragazzi, quando la macchina da presa segue senza mai staccare i protagonisti che entrano in un locale. Quello di Martin Scorsese però durava di più.