Quel libro che ha anticipato Mafia capitale
A rileggere oggi Suburra di De Cataldo e Bonini – portato sul grande schermo da Stefano Sollima – sembra di leggere una cronaca. Una cronaca vera su quel “buco nero”, senza fondo, che ha inghiottito Roma…
Il libro è uscito due anni fa. Quando ancora non era stato neanche coniata l’espressione “Mafia capitale”, quando ancora l’inchiesta su Carminati & soci, era – forse – alle prime battute. E comunque nessuno ne immaginava l’ampiezza.
A rileggere ora, invece, quel Suburra di De Cataldo e Bonini sembra un pamphlet, una sorta di libro-inchiesta sul “buco nero”, senza fondo, che ha inghiottito Roma. Cambiano i nomi – anche se quasi tutti sono assolutamente riconoscibili –, qualche circostanza è addirittura meno colorita di quella che svelerà la realtà investigativa (nel libro si raccolgono “voci” – ma appunto solo voci – sul fatto che il Samurai avesse decapitato i suoi primi, imprudenti nemici nella malavita e poi, leggendo i giornali di qualche mese fa si viene a sapere che a casa di Carminati è stata trovata un “katana”, la spada rituale dei guerrieri giapponesi). Ma per lo più, ora sembra di leggere una cronaca. Una cronaca vera. Verosimile.
E probabilmente i due autori questa capacità di anticipare l’inchiesta – cosa che hanno riconosciuto tutti i critici – l’avranno vissuta come un complimento.
Ma in realtà il libro non è solo la sua trama. Quella che sembra fatta apposta per essere tradotta sul grande e sul piccolo schermo. È anche qualcosa di più. Certo c’è la grande malavita romana e il suo progetto di speculazione edilizia, c’è – parallelamente ma che poi diventerà l’elemento centrale e scatenante della storia – la vicenda di Spadino, un “poraccio” che prova a fare il salto ricattando il politico su una storia di escort uccise dalla droga.
C’è il suo assassinio ad opera di un pezzo da novanta dell’organizzazione criminale di Ostia che scatenerà una guerra infinita. E c’è l’emergere del Samurai, prima fascista, poi riconvertito al crimine. Che però non ha dismesso la pretesa di dare dignità culturale alle sue azioni, abbracciando una strana filosofia, con semplici richiami, un po’ naif: dalla Magliana al Giappone.
Ma soprattutto c’è lo sfondo: quell’universo composto da tutta la città. Ma proprio tutta- tutta. C’è il mondo che vive lontano dalla legge, diviso fra chi comanda, chi esegue, riempito da prostitute, maneggioni, killer, aspiranti killer, cialtroni. E c’è il mondo dei politici, degli amministratori, dei poliziotti corrotti. O che semplicemente voltano lo sguardo. E ci sono i salotti della sinistra-champagne, c’è il sottobosco degli ultrà dello stadio, ci sono i venditori ambulanti. I benzinai. Ci sono tutti.
E tutti tratteggiati con poche battute, con pochi dialoghi (e chissà se questo è un limite o un pregio del libro). Tutti, in linea di massima, fedeli al cliché: dal politico disgustoso, ufficialmente però difensore della morale pubblica, fino all’ultrà della curva, che crede nella destra, fatta però di onore e sudore.
Ma poi, al di là della trama, c’è il libro. C’è l’atmosfera. Forse più interessante. Quella, appunto, che disegna il “buco nero”. Dove nessuno risponde più ad alcun imperativo, dove nessuno risponde a nulla. Dove addirittura le vecchie, antiche regole mafiose sono irrise. Dove nessuno ha un progetto – fosse anche criminale – non solo per il futuro ma anche per il giorno dopo.
È tutto buio, tutto nero. Tutto, sempre, precipita in un vortice che non lascia speranza. E anche la scena finale – che pure dovrebbe far intravedere un minimo di speranza – in realtà non assolve il buono, il colonnello dei carabinieri. Anche lui in qualche modo è stato contagiato da quel “buco nero”. Una città senza speranza, insomma. Almeno finché sarà lasciata alla battaglia fra criminalità organizzata (e i suoi alleati ovunque) e pochi onesti investigatori.
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