Se gli effetti speciali non ci stupiscono più. E Tolkien viene fatto salire sul palco della Meloni

Nel mezzo del cammin del “Signore degli anelli – Gli anelli del potere” la serie da un miliardo di dollari prodotta da Amazon Prime giunta alla quinta puntata. Fin qui ha dimostrato che il fantasy è vivo ma difficilmente riesce ancora a sorprendere. E non fa emergere la complessità della visione di Tolkien. Vale a dire di un autore che negli anni Settanta piaceva contemporaneamente ai giovani neofascisti italiani e agli hippie libertari americani. E che in questa campagna elettorale è stato evocato dal palco della Meloni …

Note a margine del Signore degli anelli – Gli anelli del potere, la serie tv da un miliardo di dollari prodotta da Amazon Prime Video e notoriamente tratta proprio dalle note a margine degli scritti di Tolkien, autore tanto geniale quanto maniacale nei dettagli e le descrizioni.

Tra le cose più curiose della serie arriva ora a metà cammino, vale a dire alla quinta puntata, c’è la forbice larga, ma davvero larga, tra i giudizi espressi dalla critica e quelli degli spettatori. Di solito succede che la critica bastona e il pubblico è di vedute più larghe, ma qui le cose sono andate in maniera più complicata.

Ad esempio: il popolare sito web Rotten Tomatoes aveva dato ben 84% punti alla serie, mentre il giudizio del pubblico non ha mai superato il 39%. Il New York Times che era stato positivo ma cauto nei giudizi iniziali, si è via via scaldato nel recensire le singole puntate (qua la quinta).

L’inglese Guardian aveva salutato l’arrivo della serie dandogli ben 4 stelle su 5. La loro giornalista Rebecca Nicholson aveva entusiasticamente scritto che al confronto House of Dragons (il prequel del Trono di spade attualmente in programmazione su Sky) sembra messo insieme da dilettanti che usano Minecraft (videogame molto popolare tra i ragazzini).

Intorno all’8 settembre il giornale ha invitato i lettori a dire la loro e, sorpresa, i commenti sono stati del tipo: “Ma perché gli elfi parlano come se avessero studiato a Eton e i pelopiedi come dei bifolchi irlandesi?”. Un lettore aveva però fatto un commento letterario particolarmente interessante: “The Rings of Power non ha proprio capito cos’è che aveva invece funzionato nei film del Signore degli Anelli, racconta una storia che non riflette le sensibilità di JRR Tolkien. L’opera di Tolkien si basa fortemente sull’importanza dei legami e delle relazioni, su come anche piccoli atti di candore, di purezza, possono portare a grandi cambiamenti”.

Bell’osservazione. Gli anelli del potere ha una qualità scenica, cinematica, di paesaggi e scene di lotta e di azione, che fa venire voglia di correre a comprare uno schermo a 100 pollici, eppure non riesce a far emergere tutta la complessità della visione di Tolkien. Vale a dire di un autore che negli anni Settanta piaceva contemporaneamente ai giovani neofascisti italiani e agli hippie libertari americani.

Se anche non fossimo vecchi abbastanza da ricordare i Campi Hobbit con cui i giovani dell’Msi cercavano di fare il verso a Woodstock con tende e canti intorno al falò, croci celtiche e dibattiti sulle mitologie norrene, di sicuro non ci è sfuggito Pino Insegno che sul palco di piazza del Popolo ha introdotto Giorgia Meloni (che notoriamente teneva una statua di Gandalf in ufficio) citando Tolkien: “Verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo”.

Quel Tolkien che per la destra era e sarà sempre un conservatore, per gli hippie americani era il portatore di una visione pre-ecologista della storia. Certamente non era razzista – a differenza di quei fan che alla serie di Amazon hanno contestato di aver introdotto un elfo di pelle scura. Aveva più volte preso le distanze da tutti gli “ismi” (fascismo, comunismo, capitalismo, a dire il vero anche il cosmpolitismo non gli era simpatico, temeva l’appiattimento culturale sul modello americano, e forse non aveva tutti i torti).

Non amava il potere autoritario né la guerra. Al college aveva fondato un club chiamato Tea Club and Barrovian Society con altri amici nominati bibliotecari come lui; siccome la scuola proibiva di consumare tè nei locali della biblioteca loro si divertivano a trasgredire lasciando come prova nei cestini le foglie da tè usate. Alcuni di loro erano partiti come lui per il fronte della Prima guerra mondiale, e non erano tornati.

Ora nubi di guerra si addensano sugli eroi degli Anelli del potere – che sono tanti, all’inizio c’era chi non riusciva a ricordarsi nomi e storie perché il cast è davvero bulimico. La storia è chiaramente arrivata ad un punto cruciale, con elfi, nani, pelopiedi e umani impegnati a fare i propri conti, decidere le alleanze, prepararsi alle battaglie, tramare nell’ombra. L’oscurità è sempre in agguato.

Magari la storia riuscirà a stupirci nelle prossime puntate. Fin qui, tanto Anelli del potere quanto House of the dragon hanno dimostrato che il fantasy è vivo ma difficilmente riesce ancora a sorprendere. La serie di Amazon stupisce con effetti speciali e tutto quello che un’iper produzione ti può dare (compresa la musica, così inutilmente pomposa) ma non supera i confini di quello che il fantasy ci ha già saputo raccontare; HOTD dal canto suo si schianta in un’abbuffata di violenza, sbudellamenti, draghi, sesso, incesti e orge, come se la novità e la forza del Trono di spade fosse tutta lì, negli eccessi.

I budget milionari non bastano per creare quello che era stato annunciato come “un prodotto nuovo”, che mette insieme la forma della serie tv con la potenza del grande cinema. Sì, ma per raccontare che cosa? Viene in mente il racconto di Julian Beck e Judith Malina su come era nato il Living Theatre, negli anni newyorkesi del dopoguerra.

Era il ’47, erano giovani, volevano fare teatro. Erano andati a trovare un artista che amavano molto, Robert Edmond Jones, scenografo e regista di impronta realista. Gli avevano raccontato del loro progetto di fare qualcosa di nuovo e diverso a teatro, lui li aveva ascoltati, poi aveva scosso la testa un po’ triste: “Quanti soldi avete per questo progetto?”. Beck gli disse che avevano 6mila dollari. “Peccato”, gli aveva risposto Jones. “Sarebbe stato meglio non avere una lira. Arrangiarvi con una sedia, dello spago, qualche cuscino, trovare un soggiorno. Per fare qualcosa di veramente diverso dovete uscire dai teatri. Se volete vi presto questa stanza”.

Beck e Malina se n’erano andati delusi, si erano aspettati un altro genere di consigli. Ma quell’idea piano piano aveva cominciato a lavorare; avevano capito che Jones aveva ragione e quattro anni dopo avevano inaugurato uno spettacolo nel loro appartamento su West End Avenue, per poi spostarsi in un granaio, poi in un magazzino, mescolando realtà e finzione, attori e spettatori; era nato il teatro di strada.