Se l’uomo bianco fa cadere il cielo. Immagini e parole di uno sciamano yanomami, in un doc che sorprende

Passato alla Quinzaine des cinéastes “The falling sky” documentario davvero unico dei registi brasiliani Eryk Rocha (figlio di Glauber, tra i massimi esponenti del Cinema Novo) e Gabriela Carneiro da Cunha, dedicato alla popolazione amazzonica yanomami messa a rischio dallo sfruttamento del loro territorio. Alla base c’è l’autobiografia dello sciamano Davi Kopenawa che ci accompagna attraverso le loro tradizioni in cui l’armonia tra gli spiriti e l’uomo ha retto i cieli fin dall’antichità. Gli stessi cieli che oggi si sovraccaricano a causa delle azioni dell’uomo bianco che tutto converte in merce. Tematiche care a Rocha già nel precedente “Edna”…

Può il cielo cadere? Il titolo di questo documentario davvero unico viene dritto difilato da quello dell’autobiografia di Davi Kopenawa, The falling sky – Word of a Yanomami shaman (La caduta dal cielo – Parole di uno sciamano yanomami, nell’edizione italiana di Nottetempo, 2018), un tomo poderoso di oltre 600 pagine che riecheggiano tutte nel film che Eryk Rocha e Gabriela Carneiro da Cunha hanno presentato alla Quinzaine des cinéastes del Festival di Cannes 2024.

Grazie ad una forte catena produttiva (che va dagli stessi registi a Donatella Palermo. Aruac Filmes, Hutukara Yanomami Association, Stemal Entertainment e Rai Cinema, con la collaborazione di Le Film D’Ici), i due registi brasiliani hanno viaggiato nel cuore della foresta amazzonica per riprendere la vita del popolo Yanomami alle prese con una dura crisi umanitaria causata dalla massiccia invasione di minatori, spesso violenti e senza scrupoli, alla ricerca dell’oro e della cassiterite, minerale utilizzato in elettronica.

È quasi un monologo, ricco di sfumature, che scorre con una prosa sciamanica – distante però da un certo fricchettonismo New Age in salsa ecologista – che segue la comunità nella celebrazione del reahu, la cerimonia collettiva attraverso la quale il popolo Yanomami intende impedire la caduta del cielo.

Nel rituale del reahu le immagini sciamaniche sono il contenuto e la rappresentazione del rapporto di armonia tra gli uomini e gli spiriti che reggono le sorti del mondo. Una comunicazione che ha retto i cieli fin dall’antichità, gli stessi cieli che oggi si sovraccaricano, a causa delle azioni dell’uomo bianco che tutto converte in merce. Nelle fasi della celebrazione, nelle pause, nello svolgimento delle pratiche quotidiane la voce di Kopenawa racconta di sè, del suo popolo, chi siamo noi, i napë (i bianchi) per il suo popolo. Il canocchiale si ribalta: è lui ad osservare noi.

«I napë dormono senza sogni, come asce abbandonate sul pavimento di una casa. Nel frattempo, nel silenzio della foresta, noi sciamani beviamo la polvere degli alberi yãkoana hi, che è il cibo degli spiriti xapiri. Poi portano la nostra immagine nel tempo del sogno. Questo è il motivo per cui possiamo ascoltare le loro canzoni e contemplare le loro danze durante il sonno. Questa è la nostra scuola per conoscere davvero le cose».

Se nel libro il linguaggio immaginifico e metaforico dello sciamano viene tradotto dall’etnologo, nel film tocca a noi sciogliere il groviglio per arrivare a interpretare e cogliere la concretezza delle parole di Davi.

Una volta tradotto in forma a noi più familiare, Davi parla dell’esistenza di immagini comuni tra gli yanomami e i napë per fare un parallelo in un campo estremamente vivo e attuale: quello della tecnologia e della modernità.

Un rapporto che gli Yanomami, spesso romanticamente definiti come “l’ultimo popolo primitivo della terra”, non rifiutano; semplicemente è regolato da una diversa visione del mondo, come del resto anche la religione.
Lo capiamo all’inizio del film con la marcia degli indios diretti al luogo del raduno. Sfilano davanti alla cinepresa vestiti con maglie di squadre di calcio, t-shirt con nomi di band musicali e persino una Gucci (verosimilmente taroccata), e smartphone, per non parlare della radio trasmittente dalla quale arrivano messaggi sugli spostamenti dei garimperos e altri aggiornamenti.

Senza dubbio, The Falling Sky esprime con precisione l’orientamento ontologico del mondo indigeno ma è anche un mix di autobiografia, storia, filosofia personale e critica culturale verso i bianchi per la loro insensata corsa verso la distruzione del mondo, l’adorazione dei beni materiali e la mancanza di valori più alti, che si definiscano spirituali o altro.

Uno degli aspetti più interessanti del doc è la neutralità che assume la macchina da presa. Non rincorre l’esotico o il pittoresco; al contrario di tanti precedenti antropologici o etnografici, offre la possibilità allo sciamano di ribaltare la condizione di osservato per assumere quella di narratore di una auto-etnografia e, soprattutto di osservatore critico di un mondo, il nostro. Di noi napë.

A questo punto può essere utile una digressione. Da poco è uscito in Italia il bel libro di Katja Petrowskaja dal titolo La foto mi guardava (Adelphi, 2024) nel quale l’autrice applica alla fotografia la pratica dell’ecfrasi che è, citando la Treccani, “Il nome che i retori greci davano alla descrizione di un oggetto, di una persona, o all’esposizione circonstanziata di un avvenimento, e più in particolare alla descrizione di luoghi e di opere d’arte (…)”. Cosa c’entra questo con lo sciamano e col film? C’entra perché cercando notizie su Davi Kopenawa, in fondo ad una lunga sequenza di link proposti da Google, appare un articolo del 1993 dal giornale brasiliano Folha de S.Paulo, con una foto scattata d’impulso dal fotoreporter Ormuzd Alves, inviato nella giungla amazzonica tra il Rio Orinoco e il Rio delle Amazzoni.

Alves era corso lì quando era giunta la notizia che garimperos e minatori avevano assaltato il villaggio Yanomami di Haximu uccidendo almeno 93 indios. Il confine tra Venezuela e Brasile taglia in due quella che, di fatto, è da sempre la Nazione del popolo Yanomami, fin dagli anni ‘70 soggetta agli appetiti senza scrupoli dei cercatori d’oro, degli smeralderos e di tutti quanti hanno fatto un lucroso business della spoliazione delle ricchezze naturali, protetti dalle indispensabili connivenze politico-amministrative, militari e poliziesche. Al centro di quella foto c’è lui, Davi Kopenawa, rivolto al reporter con lo sguardo severo di un capo, dipinto coi colori di guerra e circondato da un fitto canneto di lance e frecce dei guerrieri nella preparazione della vendetta. In quella foto, come nel libro e come anche nel film c’è lui che guarda negli occhi noi… Ed è davvero difficile reggere quello sguardo.