Storia di un babbo a cui ci lega un affetto “senza confino”. Paola e Silvia raccontano papà Scola al MIAC

“Chiamiamo il babbo” è il libro del terzo incontro al MIAC (visibile qui). Paola e Silvia Scola raccontano l’intimità e il glossario di famiglia, la carriera del padre, le amicizie, in particolare con Troisi “il figlio maschio mai avuto” e Fellini a cui ha dedicato il suo ultimo film. E poi, ovviamente la politica che tanta parte ha avuto nel suo cinema e nella vita «era deluso ma ottimista per il futuro». Insomma un artista per cui continuano a nutrire, per citare lo splendido Mastroianni sottoproletario di Dramma della gelosia, un affetto «senza confino»…

 

Sono ormai cinque anni che Ettore Scola è andato in pensione anche dalla vita, dopo che negli ultimi anni aveva raggiunto il tanto agognato riposo dai set – «vanno in pensione anche i papi, non possono andarci i registi?», diceva dopo il gran rifiuto di Ratzinger.

È invece appena un anno e mezzo che Chiamiamo il babbo, il volume edito da Rizzoli in cui le figlie Paola e Silvia hanno raccontato il grande regista, è apparso in libreria. Oggi proprio le autrici tornano a parlarne nell’ambito del terzo appuntamento (visibile qui), dopo quelli dedicati a Cosa Nostra e Giulietta Masina, di “Libri al MIAC”.

Paola e Silvia ripercorrono la carriera del padre, dalla redazione del Marc’Aurelio – «una fucina di cazzeggio», spiega Silvia – ai primi anni da “negro” per Metz e Marchesi, per cui scrisse anonimamente scene comiche di molti film – tra cui, come conferma Paola, l’indimenticabile lettera dei Fratelli “Caponi” in Totò, Peppino e la malafemmina. Scola d’altronde era, prima di tutto, sceneggiatore, non solo per l’iter della sua carriera ma proprio per vocazione.

Le sceneggiature dei suoi film sono, in qualche modo, come dei piccoli saggi sintetizzati in una battuta, un’azione, a volte anche solo in una parola. A monte c’era quello che Paola e Silvia hanno ribattezzato il Metodo Amidei: far confluire nel copione mesi e mesi di discussione sui personaggi e su quel che sarebbe dovuto accadere in scena; «è per questo che, rispetto ai film di oggi, quei film rimangono ancora, perché hanno una profondità, una terza dimensione», spiegano.

Oltre la macchina da presa, c’è il ricordo delle grandi amicizie che legarono Scola e nomi indimenticabili del cinema italiano. Fellini, per cui l’ammirazione era totale – «lui è un artista, io un artigiano», diceva –, a cui chiese di fare un ironico cameo in C’eravamo tanto amati (con annesso scherzo non concordato, un generale che nel salutarlo esclama «sono fiero di stringere la mano al grande Rossellini!») e a cui dedicò il suo ultimo film, Che strano chiamarsi Federico. Senza scordare Troisi, «il figlio maschio che non ha mai avuto», con cui il colpo di fulmine fu istantaneo e totale, tanto che lo stesso attore confessò a Minà: «Scola è la mia donna ideale».

Paola e Silvia non tralasciano i lati negativi di un cognome pesante, «non sapevi mai se chi ti si avvicinava lo faceva per te o per lui», né le speranze politiche disattese tragicamente dalla realtà, «era deluso ma ottimista per il futuro».

Riflessioni, aneddoti e risate, senza mai scordare ciò che nel mondo va ancora e più che mai cambiato. Questo è stato il cinema e la vita di Ettore Scola, questo traspare da Chiamiamo il babbo, questo è ancora il motivo per cui i suoi film sono fondamentali. Non meno importante, questo è il motivo per cui queste pagine web (e chi vi scrive) continuano a nutrire per Scola un affetto, per citare lo splendido Mastroianni sottoproletario di Dramma della gelosia, «senza confino».