Storie di fantasmi e fanciulle. Il manoscritto di Potocki ritrovato dal cinema
Torna in sala dal 5 luglio (cinema Adriano a Roma) “Agadah”, visionario film che Alberto Rondalli ha tratto da uno dei romanzi più visionari e misteriosi di sempre: “Il Manoscritto trovato a Saragozza” di Jan Potocki, affascinate scrittore polacco vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento. Una sorta di “Decamerone nero”, di “Mille e una notte” pieno di scheletri, fantasmi e fanciulle, tra cui si muove il giovane capitano della guardia dei Valloni, che attraversa l’Alta Murgia, spedito a Napoli da Carlo di Borbone . Qui la programmazione …
Deve averlo apprezzato assai l’articolo o, più appropriatamente, il mini saggio che Pietro Citati ha scritto per la Repubblica del 17 giugno 1990 su Jan Potocki.
E il film che Alberto Rondalli ha dedicato, con evidente trasporto, a quest’autore polacco, affascinantissimo, vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento, è come se, di quest’articolo, ne seguisse il percorso e le tracce.
Anche il suo Agadah– termine cabalistico che significa narrare con cui ha scelto di battezzare l’opera da lui scritta, diretta e montata – parte con un’immagine del Palazzo di Lancut “prodigio bianco e rosa, barocco e rococò” frequentato e vissuto dall’aristocratico Potocki, prodigioso anche lui – come il Palazzo che sta nel sud della Polonia e ora è un museo visitatissimo – per la bulimica fame di letture e viaggi, per la sua sconfinata conoscenza di lingue di ogni tipo, antiche e moderne, per la sua, in apparenza non conciliabile, passione per tenebre, trucchi, misteri e geometrica ragione.
Insomma un mondano per stirpe, brillante e onnivoro. E veramente un tuttologo (ma non nella deprimente versione attuale) enciclopedico, nel senso che era in grado veramente di affrontare, per conoscenza perseguita con curiosissimo e pedante impegno, da forzato per voglia di sapere, ma anche con smitizzante parodia, qualunque argomento.
E di scriverne instancabile.
Pur se a quell’epoca non era questo il termine, pare che fosse un ciclotimico o bipolare come oggi si usa definire chi alterna strazianti malinconie ad euforie decisamente fuori dalle righe.
E la presenza del doppio è in qualche modo il filo rosso che percorre Il Manoscritto trovato a Saragozza (Guanda – Adelphi – Mondadori, ma Citati consiglia vivamente l’edizione di Guanda), opera scritta in francese, picaresca e misteriosa, sorta di Enciclopedia di racconti boccacceschi o da Mille e una notte, piena di scheletri e fantasmi, divisa in 66 giorni, a cui il regista si è liberamente ispirato per il suo Agadah, in questo caso limitato a soli 10 giorni che ha per protagonista un candido (come quello di Voltaire) giovanotto spagnolo, Alfonso Van Worden, capitano della guardia dei Valloni, che attraversa l’Alta Murgia, spedito a Napoli da Carlo di Borbone, insieme al rotondo Lopez, sorta di Sancho Panza, suo domestico fedele preoccupato dai rischi a cui può andare incontro il suo padroncino se non sta più che attento.
E di rischi ne incontrerà non pochi, ma non esenti da piaceri. A cominciare da quelli che gli forniscono da subito due graziose fanciulle, briose lesbiche, che gli si danno con visibile piacere “triciproco” per un progetto segreto: sono le sue cugine musulmane Gomelez e vogliono sposarlo insieme per far con lui qualche bimbetto e continuare la stirpe, riportarla nella terra di Granada per convertire i cristiani e predisporre il predominio sciita nel mondo islamico.
Peccato che, dopo la seratina niente male, al suo risveglio nel giaciglio se le trovi stecchite. Come del resto anche due tizi su una forca proprio sopra la sua testa. Niente paura, le doppie coppie di fanciulle e impiccati, torneranno con puntuale ricorrenza. E non è che il primo giorno di questo viaggio iniziatico che durerà per altri 9, zeppi di incontri con scheletri ambulanti e racconti di personaggi che raccontano non proprio amene, anche se a volta comiche, storie di famiglia.
Ci si può perdere, come un pochino stizzita a un certo punto dirà Rebecca (“Le vostre storie sono così complesse che mi smarrisco”), unico personaggio che, con l’idea bizzarra e neanche un po’ faraonica di trovarsi un marito e magari farci un figlio, punto e basta, rinuncia molto volentieri all’immortalità.
Anche lo spettatore può smarrirsi in questo intreccio, iper “cunto de li cunti”, ma perdersi, a volte, può dare anche piacere.
E a dimostrare che chi scrive, anche il più enciclopedico, non fa che raccontare se stesso Agadah in apertura, dopo il palazzo di Lancut ci porta nello studio salone di Potocki, probabilmente nel castello di Uladowka dove si era ritirato negli ultimi anni della sua vita e dove vediamo che una domestica gli porta il tè. Lì, nell’autunno del 1814, e in chiusura del film, Jan si toglie la vita sparandosi con una pallottola ricavata limando di persona la pallina che decorava la teiera della sua mamma.
Molti anni dopo Romain Gary farà una fine altrettanto elegante.
Veste i panni di Alfonso l’argentino Manuel Pérez Biscayart, in quelli di Potocki/Diego Hervas lo spagnolo Jordi Mollà, Rebecca è la spagnola Pilar Lopez De Ayala, mentre tra i molti italiani, Valentina Cervi, Caterina Murrino, Alessio Boni, Flavio Bucci, Marco Foschi, Alessandro Haber e il mefistofelico Umberto Orsini. Oltre alla partecipazione del Teatro tascabile di Bergamo. Mentre le due più che disponibili lesbo-sorelline sono Marta Manduca e Giulia Bertinelli.
Quanto ad Alberto Rondalli, formato da Ipotesi cinema di Olmi e i seminari di Eugenio Barba e Krysztof Kieslowski, ricordiamo i precedenti lavori: Padre Pio da Pietralcina, Il Derviscio, L’aria del lago e Anita & Garibaldi.
Agadah, prodotto da Pino Rabolini fondatore di Pomellato è distribuito da RA.MO nelle sale.
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