Strage al campo rom. Nell’Ungheria dei nuovi fascismi, film monito per l’Occidente
Alla Berlinale “Genesis” di Árpád Bogdán ricostruisce i ipetuti attacchi dei neofascisti ungheresi contro gli insediamenti rom che provocarono la morte di sei persone, nel 2008/2009. Un racconto in tre capitoli sulla “genesi” della violenza. Un’opera di aperta denuncia nell’epoca di Orbán sull’Ungheria dei nuovi fascismi. Il film restituisce la complessità della questione attraverso il meccanismo del racconto. E si fa monito per tutto l’Occidente …
Notte. Un gruppo di giovani attaccano un campo rom. Lanciano bombe di benzina agli abitanti e sparano alle famiglie in fuga. È piantato duramente nel contemporaneo Genesis di Árpád Bogdán, presentato alla Berlinale 2018 come evento speciale della sezione Panorama. È il primo film sui fatti in Ungheria del 2008/2009: i ripetuti attacchi dei neofascisti ungheresi contro gli insediamenti rom, che provocarono la morte di sei persone. Tra cui un bambino di cinque anni.
Il giovane regista, classe 1980, ricostruisce la vicenda attraverso un racconto corale che si divide in tre capitoli: il primo dedicato a Ricsi, bimbo rom di nove anni che vede la madre uccisa e riceve un proiettile nella schiena. Suo padre è detenuto per piccoli reati, il piccolo viene affidato ai nonni.
Nel secondo segmento troviamo Virág, giovane e bella, esperta di tiro con l’arco, fidanzata con Misi: la ragazza inizia a sospettare che il compagno – con simpatie neonaziste – sia coinvolto nella strage. L’ultimo, infine, si intitola Hanna: avvocato di successo, nel corso del processo la donna è chiamata proprio a difendere i neonazisti, finendo per essere confusa con loro, soprattutto dalla folla inferocita che vuole linciarla.
Le linee narrative nascono parallele e poi gradualmente si intrecciano, plasmando simboli e metafore che respirano naturalmente nel tessuto: come un bambino colpito alle spalle, atto di rottura, che porta il giovane a introiettare già il linguaggio della violenza, a imbracciare anch’esso il fucile. O come – allo stesso modo – un’arciera costretta a fare uso peculiare della sua abilità.
Opera di aperta denuncia nell’epoca di Orbán, nell’Ungheria dei nuovi fascismi, Genesis colma un vuoto e insieme si interroga continuamente sul contemporaneo: la genesi del titolo è anche quella della violenza, il germogliare di una società inospitale e crudele che mette gli uni contro gli altri, ponendo i più giovani spalle al muro.
Dinanzi alla costruzione dell’intolleranza, dunque, l’unica ipotesi di uscita viene riposta nelle nuove nascite, generare o adottare bambini, per sondare timidamente la strada di un domani migliore. Tracce che restano implicite nelle storie, preferendo restituire la complessità della questione attraverso le possibilità del racconto piuttosto che con l’esplicitazione frontale.
Ennesima ricostruzione di una strage come, in concorso, Utøya 22. Juli di Erik Poppe sul massacro di Breivik, il film di Bogdán viene appesantito a tratti da note retoriche e accostamenti troppo significativi: eppure lancia un monito che, radicato sul territorio ungherese, parla del suo Paese per mettere allo specchio anche i nostri, per sondare le ombre che si allungano sull’Occidente.
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