“Sulla infinitezza”, gli spazi immensi dell’umanità in un haiku. Il cinema da Nobel della letteratura di Andersson

In sala dal 27 maggio (per Wanted Cinema) “Sulla infinitezza” dello svedese Roy Andersson, vincitore del Leone d’argento a Venezia nel 2019. Un nuovo tassello della sua filmografia che, ancora una volta, si mostra indissolubilmente legata alla poesia di Tomas Tranströmer (premio Nobel per la letteratura del 2011). Le loro opere sono “stazioni, dove confluiscono temporaneamente treni dalla provenienza più disparata e dove il lettore avverte con grato stupore il senso della distanza compiuta, impetuoso come il vento della corsa: una sintesi di spazi immensi”. Da vedere …

C’è un legame indissolubile tra il cinema di Roy Andersson e la poesia di Tomas Tranströmer (premio Nobel per la letteratura del 2011). Entrambi procedono per frammenti, haiku raggelati e al tempo stesso vivissimi, entrambi indagano i silenzi e le complessità che caratterizzano la condizione umana attraverso dettagli in apparenza minimi, spesso assurdi, riuscendo a renderli universali.

La loro è una affinità talmente forte, da permetterci di adattare il giudizio che il poeta e traduttore Robert Bly scrisse a proposito dei versi di Tranströmer, anche ai film di Andersson. Bly paragona le poesie di Tranströmer a “stazioni, dove confluiscono temporaneamente treni dalla provenienza più disparata e dove il lettore avverte con grato stupore il senso della distanza compiuta, impetuoso come il vento della corsa: una sintesi di spazi immensi”. E questa è una definizione che funziona perfettamente anche per il cinema di Adersson.

Sulla infinitezza vincitore del Leone d’argento a Venezia nel 2019, rappresenta un naturale proseguimento delle opere precedenti del regista svedese. Ritroviamo infatti i suoi caratteristici personaggi dal volto imbiancato – difficile decidere se si tratti di talco o di cenere – racchiusi, quasi rinchiusi, dentro i suoi tipici quadri ampi, che coinvolgono orizzonti naturali o artificiali.

Figure malinconiche e malandate – uno strano mix di Tati e Beckett – spesso costrette a lunghe attese, oppure impegnate in azioni quotidiane negli ambienti più disparati, sul lavoro, nei loro appartamenti, al bar, in guerra. Ciò che unisce tutte queste scene in apparenza così disallineate, oltre allo stile del regista, è lo sforzo, evidente, compiuto da tutti i personaggi, di formulare un accordo, una tregua, con l’ambiente circostante. E per ambiente, quando ci troviamo davanti a un film di Andersson, si intende soprattutto la società, gli altri, la razza umana.

Un simile approccio, dotato di questa ironia gelida e assurda, e basato su di un distacco in apparenza desolante, rischierebbe facilmente di trasformare il regista svedese in un entomologo e la sua Stoccolma in un insettario. Ma Andersson riesce a impedirlo, immettendo nei suoi lavori una profonda empatia. Un sentimento di fratellanza, di comunione profonda che, paradossalmente, risulta amplificato proprio grazie all’apparente freddezza con cui ci viene mostrato. Il meccanismo artistico di Andersson funziona come un filtro per trattenere la retorica al di fuori del suo cinema. Un cinema che non ha paura della rarefazione, capace di affrontare il più temibile degli avversari: la semplicità.

In apparenza dotato di una ristretta gamma cromatica, Sulla infinitezza, fa pensare piuttosto ai polpi che, costretti a una visione in bianco e nero, sono riusciti a sfruttare “un difetto” delle loro pupille trasformandolo in uno strumento adatto a percepire i colori, essenziali alla loro sopravvivenza.

Allo stesso modo i colori cinerei, ricchi di azzurri pallidi, malve spente, marroncini e viola esangui, che a un primo colpo d’occhio danno una impressione di uniformità, al contrario, funzionano come meccanismi in grado di far risaltare enormemente anche i più impercettibili sussulti. E al tempo stesso, rendono incredibilmente plausibile gli accostamenti più azzardati: quale altro regista riuscirebbe a far convivere Hitler con un cameriere che ha perso la testa senza risultare ridicolo o eccessivamente artificioso?

Rispetto alla sue ultime opere, in questo film Andersson sembra riallacciare il discorso con uno dei suoi lavori più politici, il cortometraggio Un mondo di gloria del 1991. La brutalità della guerra, l’insensatezza della violenza, apparendo e scomparendo a intermittenza per tutta la durata della pellicola, sono una chiave, antiretorica, per ricordarci l’infinità simultaneità di cui il mondo è portatore.

Giovani ragazze che danzano fuori da un bar, irrisolvibili rancori tra vecchi compagni di scuola, preti che hanno perso la fede, manager che non sanno provare vergogna, incontri mancati e uomini estasiati davanti alla neve, tutti si nutrono della stessa sostanza a cui attingono anche i carnefici e gli aguzzini: in questa verità abitano sia la meraviglia che l’orrore.
Attorno a questa difficile verità, Roy Andersson traccia le sue linee di confine, lasciando a noi il compito di oltrepassarle.