Un burbero di buon cuore (con Lacoste e bretelle) che ha cambiato la vita a tanti. Addio Toni De Marchi

Amico, collega, compagno. Toni De Marchi ci ha lasciati nel pomeriggio del 30 maggio. La malattia, feroce, è stata solo l’ultima tappa di una vita piena. E vissuta sempre da magnifico burbero di buon cuore. Veneziano doc, elegantissimo, impegnato e capace di scelte, anche difficili. Come questa degli ultimi giorni: quando ha chiesto lucidamente di sospendere le cure…

 

Ha avuto tante vite Toni. Ed ogni volta le ha sapute cambiare e ricostruire daccapo. La malattia è stata solo una di queste. E sempre le ha sapute raccontare agli amici radunati in tanti alle sue tavolate, farcite di ottimo cibo e di aneddoti.
La sua infanzia a Venezia (è nato lì 71 anni fa), il lavoro di ferroviere, il Pci, l’ufficio stampa del Comune, la scelta di diventare giornalista. L’agenzia a Parigi, la radio, Rinascita, l’ufficio stampa del Giubileo e poi la guida de l’Unità online, prima che chiudesse.

Anche se molti lo ricordano soprattutto per Rinascita. Quello scoop sui fatti di Ustica, l’abbattimento di quell’areo civile nell’estate di tanto tempo fa su cui non c’è ancora una versione definitiva. Quel che si sa in gran parte lo si deve proprio a Toni. Per primo sul settimanale di approfondimento culturale del Pci, tirò fuori le prove che i tracciati ufficiali stavano mentendo. Qualcuno se ne accorse e lo chiamò a spiegare i suoi dubbi: Santoro lo ospitò nel suo talkshow. Quando ancora i talkshow erano guardabili.

Altri, altri suoi colleghi più inseriti – e perché non dirlo? – più vicini al mainstream, ripresero quelle sue prime denunce. Senza mai citarlo, però.

Ma a lui non è mai importato più di tanto. Non ci teneva alle medaglie Toni. Non gli importavano i riconoscimenti, ma piuttosto le battaglie. Quella per salvare (risalvare) Paese Sera gli costò l’ostracismo di un pezzo del Pci, editore della testata. O anche la sfida per la prima vera, rivista digitale, esclusivamente digitale, quasi vent’anni fa. Dedicata al mondo dell’ascolto musicale, delle casse, dei subwoofer, dell’hi-fi. Rivista talmente raffinata – anche nella sua versione inglese – che gli valse un po’ di servizi ai telegiornali ma non il successo economico.

Toni era così un magnifico burbero di buon cuore. Un gigante con le Lacoste d’ordinanza e le bretelle in bella vista. Capace di urlarti contro con improvvise impennate di voce. Pronto a battutacce così sapientemente scorrette che oggi solleverebbero proteste di piazza. Eppure maestro di un giornalismo rigoroso che ha saputo regalare a tanti ragazzi, stagisti e stagiste, molti dei quali oggi ricoprono posti di responsabilità nei pochi quotidiani rimasti aperti.

Un burbero di buon cuore, ancora, che a differenza del personaggio goldoniano invece che il nipote era lui a creare dissesti finanziari. Con quel suo gusto raffinato per il design, le cose belle ma sempre troppo costose. Eppure anche sui buffi ci si poteva scherzare.

Con Toni si poteva scherzare di tutto. Anche della sua malattia, tra tante la più bastarda. Arrivata come “un ospite inatteso”.

È lui stesso a raccontarla così ne La cena di Toni, il bell’omaggio che Elisabetta Pandimiglio gli ha e ci ha regalato qualche anno fa. Il film racconta di un’altra e più estrema delle sue battaglie: quando, distrutto dai dolori, chiese, primo utente nel Lazio, di poter accedere alle terapie con il tetraidrocannabinolo, con la marijuana insomma. Terapia, che aggrappandosi a mille cavilli burocratici, le autorità sanitarie all’inizio gli negarono.

Questo era Toni. Un burbero di buon cuore che ti ascoltava comunque. Paradossale quando sfilavano da lui amici e colleghi lamentandosi dei loro piccoli crucci, mentre la sclerosi e tante altre conseguenze a Toni non lasciavano tregua.

Eppure lui ti ascoltava. Sempre presente e competente su tutto, informatissimo. Nessuno poteva batterlo in questo. Continuando ad offrire i suoi saperi agli amici, a Strisciarossa e anche a queste pagine web. Ancora ieri ti descriveva nel dettaglio le armi italiane inviate in Ucraina, spiegandoti la differenza – sostanziale – fra le armi di difesa e quelle per proseguire la guerra. Ti descriveva con dei semplici disegnini come funziona la rete peer to peer, ti parlava dei film o delle mostre, anche quelle che aveva organizzato una vita fa a Venezia.

Le clientele, le storture e gli sprechi dell’apparato militare italiano erano uno dei suoi cavalli di battaglia. Gli ultimi anni dal suo blog su Il fatto quotidiano fece tremare più di una volta il Ministero della difesa. Finì col la polizia in casa a sequestrargli telefonini e hard disk.

Una passione questa cominciata da ragazzino. Il soldato democratico, pubblicazione semiclandestina e pressoché sconosciuta è stata la sua prima avventura editoriale. Ancora l’altro giorno, aiutato forse dalla morfina, ci raccontava con quella sua bella faccia da nobile veneziano di altri tempi, quando da bambino, alle elementari, la terribile suor Scapasson lo puniva con la confisca del suo soldatino paracadutista preferito. A noi piace ricordarlo così, con quell’animo un po’ bambino che in fondo non l’ha mai lasciato.

A Vichi, Elisa, Niccolò e agli altri sui nipoti l’abbraccio più grande.